30 gennaio 2014
Alessandria d’Egitto, tre anni dopo Mubarakfoto e reportage di
Domenico D'AlessandroQuando mi sveglio le finestre della stanza lasciano intravedere il riverbero della luce di mezzogiorno misto al rumore dei mezzi pesanti dell’esercito e delle sirene dei vigili del fuoco. Gli scontri nel terzo anniversario della caduta di Mubarak sono già iniziati qui ad Alessandria. Sento le voci levarsi da Port Said Street. Faccio qualche scatto. Dal quarto piano i palazzi fanno da quinte allo scorrere dei pick-up color sabbia delle squadre speciali dell’esercito. Rientro dentro e chiamo Emed ma nessuna risposta. Ci saremmo dovuti incontrare in mattinata ma sul telefono non ho avuto nessuna chiamata. Allora chiamo Baher che mi dice di scendere; tra pochi minuti ci incontreremo. Prendo la mia macchina fotografica e svuoto il portafoglio di tutte le cose superflue. Sulla strada un uomo mi ferma chiedendomi la mia nazionalità e si offre di accompagnarmi fin al caffè ma rifiuto e proseguo per la direzione che mi aveva precedentemente indicato.
Dall’altra parte della Corniche, il lungomare di Alessandria, Baher mi sta aspettando con uno straccio in mano mentre pulisce la sabbia che nella notte si è posata sulla sua macchina: una Fiat Uno 45C fabbricata in Polonia. Ci salutiamo e percorriamo in macchina il lungomare in cerca di Emed, da poco ritornato da un presidio, che ci accoglie stanco e sconsolato. Il presidio è stato sgomberato dopo circa mezz’ora e otto dei loro sono stati arrestati. Si è svegliato molto presto e decide di tornare a casa.
Noi continuiamo, anche se abbiamo la sensazione di star perdendo tempo. La curiosità ci spinge a proseguire lungo quel pezzo di strada che costeggia la moschea di Kaid Ibrahim, dove poco più avanti siamo sicuri di trovare un presidio dei sostenitori del leader militare El-Sisi. Due presidi sono stati organizzati qui ad Alessandria. L’altro, mi dice Baher, è stranamente a City Beschr, il quartiere dei Fratelli Musulmani. Il rumore delle auto è assordante e la gente occupa su quattro file la strada con bandiere e musica. C’è chi ti vuole vendere immagini del generale, chi bandiere dell’Egitto presidenziale, chi semplicemente sventola sorridente una delle due cose. Riusciamo a malapena a muoverci e a rilento raggiungiamo un tratto meno congestionato. I cecchini dell’esercito sono sui tetti dei palazzi che si affacciano sul Mediterraneo ben visibili con fucili e cannocchiali. L’elicottero dell’esercito, come nei giorni del golpe del 30 aprile, si diverte a far sentire la sua presenza e ronza sulle piazze. La strada è ora percorribile e decidiamo di tornare indietro. Poco dopo lo scenario si ripete con pick-up stracolmi di gente, moto con bandiere attaccate ovunque e camion pieni di gente intenta a festeggiare.
Una volta imbottigliati, una folla accerchia la macchina. Non sono poliziotti né militari bensì, come vengono chiamati qui in Egitto nel linguaggio comune, Baltagheja, ossia gente assoldata, nel vero senso della parola, per controllare informalmente le piazze, creare casini per giustificare l’uso della forza e tante altre poco nobili mansioni. Mi chiedono i documenti e chiedono a Baher per quale motivo la sua macchina non abbia le targhe. Mentre sto per dare il passaporto a un poliziotto sulla sinistra, alcuni ragazzi sulla destra mi fanno cenno di darli a loro. La confusione inizia a innervosirmi. Continuo a tenere i miei documenti in mano fin quando fanno scendere Baher dalla macchina per mostrare i documenti provvisori delle targhe in sostituzione. Ma non basta. Un militare in borghese, grosso e con in mano un fucile, si impossessa del controllo della macchina e parte sparato lungo la Corniche. Nel frattempo un suo collega gli sfila dal finestrino il fucile. Baher è dietro, al centro tra due poliziotti in divisa. Percorriamo le strade di Mancheja e arriviamo alla prima stazione di polizia. Saliamo le scale e ci fanno sedere in un angolo. Non è necessario continuare nei dettagli la storia, in fondo non è successo niente di così speciale da meritare altre righe, visto che il tutto ci è costato solo un’ora e mezza di attesa per i controlli in una stazione di polizia. Ma può essere esemplificativo del periodo che l’Egitto sta tornando a rivivere dopo il golpe militare.
Riprendiamo la macchina e ci dirigiamo al primo caffè lungo la Corniche. Nulla di quello che mi ero prefisso di cercare c’è stato e il controllo è così palese che dopo qualche foto mi è passata la voglia di farne altre. Torno nell’appartamento dove sono ospite e inizio a scrivere questo pezzo. In serata ricevo la telefonata di Mahmoud, un giovane attivista spostatosi al Cairo durante il 25. Il fratello è stato arrestato ma non riesce a darmi maggiori notizie.
Siamo stanchi di vedere lo show in televisione con annesso elicottero dell’esercito illuminato dai laser verdi dei supporter di El-Sisi. In tv c’è We are the bus people, un film drammatico del ’76 dal sapore kafkiano, ambientato nell’Egitto di Nasser. Racconta la storia, presumibilmente realmente accaduta, di tre uomini colpevoli di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, un bus per l’appunto. Mediante torture e violenze psicologiche i tre confesseranno un delitto politico mai commesso. A voi lascio la sorpresa del finale. Al di là della bellezza, il film, se attualizzato, comunica che gli egiziani non sono avulsi dal conoscere la forza con la quale l’esercito può amministrare e deteriorare a suo piacimento il dibattito politico. Al tempo del generale che guidò l’Egitto nella guerra contro Israele era impossibile parlare di politica nei luoghi pubblici, cosa totalmente ribaltata dopo l’insurrezione del 2012. Ciononostante l’esercito oggi è riconosciuto come valoroso patriota che seppe infliggere iniziali sconfitte alle armate israeliane, nonostante la guerra fu in realtà una totale disfatta per l’Egitto, che si vide sottratto il Sinai. Non è raro vedere ambulanti vendere immagini che raffigurano la figura di El-Sisi con Nasser e di sicuro la retorica che vede l’esercito come un valoroso guerriero che provò a fare la voce grossa contro Israele e l’America, oggi si riversa nelle menti di ogni egiziano in età avanzata, identificandolo come colui che ha strappato il potere ai Fratelli Musulmani. Il salvatore della patria insomma.
Alle quattro del giorno seguente due ufficiali di polizia ci fanno visita. I controlli continuano e nuovamente mi vengono fatte le stesse domande. Da quando sei qui, chi conosci, per chi fai fotografie e quando te ne andrai. Il controllo continua porta a porta. Forse la casualità, forse l’intenzione di controllare chi sia in questa casa al quarto piano nel quartiere di Ibrameia ad Alessandria, forse la soffiata di qualche Feloul o semplice routine, non so. Ciò che conta è che l’esercito sta portando avanti una azione di mappatura totale di tutti coloro che potrebbero ordire chissà cosa contro il nuovo ordine, prendendo nominativi e numeri di telefono di ognuno degli abitanti delle case controllate. La caccia porta a porta dei Fratelli Musulmani trascina nella sua rete chiunque veda di cattivo occhio l’esercito e i suoi leader politici. C’è chi è morto in piazza, chi è scappato in Turchia, chi in Quatar, chi in altri paesi della penisola arabica. Chi marcisce in carcere con l’accusa di manifestazione illegale, come i tre attivisti del movimento 6 aprile, e chi invece aspetta una delle tre sorti. Intanto, coloro che per due anni si sono visti togliere quell’egemonia che Mubarak era riuscito a dargli (militari, magistrati e classe economica dirigente vicina a Mubarak) oggi festeggiano. I giorni del terzo anniversario dell’insurrezione del 2012 si sono così trasformati nel plebiscito del nuovo ordine militare.
Nessuno degli eredi delle idee originarie dell’insurrezione oggi partecipa nelle piazze, fatta eccezione per alcuni gruppi isolati di dissenso come quello di Emed, peraltro subito disperso, e i Fratelli Musulmani, che continuano la loro lotta contro un esercito fin troppo armato e presente, che spara per uccidere. Emed, pur consapevole del numero esiguo dei partecipanti al presidio dove ha partecipato, è sicuro che l’Egitto non possa essere incastrato in una continua logica dicotomica. Fratelli Musulmani e rivoluzionari prima, Fratelli Musulmani ed esercito dopo. Sì o no per la costituzione dei Fratelli Musulmani, sì o no per la costituzione dell’esercito. Quella complessità compostasi durante i giorni dell’insurrezione che ha visto il nascere di molteplici piattaforme politiche, gruppi informali, movimenti femministi, ultras politicizzati, giovani artisti e una miriade di partiti politici, sembra schiacciata dalla semplificazione dicotomica per una ipotetica stabilità. La gente che oggi è nelle strade è troppo distante dalle idee originarie di piazza Tahrir, perché in quei giorni era a casa barricata con la paura che gli rubassero l’argenteria. Il primo elemento per comprendere questa netta divisione è osservare l’età medio-avanzata di coloro che hanno partecipato alle manifestazioni del 25 gennaio, rispetto alla folla di giovani presenti a Tahrir nel 2012. Oggi a Tahrir, le persone sono state perquisite e identificate prima di poter entrare in una festa surreale, dove sul palco ballerini, cantanti, attori e militari erano mostrati su tutti i media egiziani. Tranne ovviamente Al Jazeera, che continua la sua battaglia mediatica nel raccontare le voci di dissenso dei soli Fratelli Musulmani.
Eluso l’impegno da parte dei Fratelli Musulmani di far luce sulle stragi di manifestanti da parte della polizia e dell’esercito durante l’insurrezione del 2012, oggi i suoi leader sono incarcerati per le stragi degli oppositori morti sotto il braccio violento dei seguaci della Fratellanza. Ciononostante l’esercito non sembra avere nessuna intenzione di trovare un colpevole per quelle morti, sarebbe come chiedere all’esercito di auto-accusarsi, continuando così la linea dura. Entrambi, in ogni caso, hanno le mani sporche di sangue. Bisogna ricordare che uno degli impegni del dopo rivoluzione era quello di procedere mediante giudizi civili per i civili invece di essere giudicati da tribunali militari. Ciò ovviamente non è avvenuto, e la nuova costituzione prevede nei casi in cui gli arresti vengano fatti da organi militari, un giudizio proprio da parte dei tribunali militari.
Tutti i partiti nati dopo il 2011 di sicuro spariranno dallo scenario politico e, tranne Hamdeen Sabahi, non si sa chi correrà alle prossime elezioni presidenziali. Tra i dissociati c’è stranamente anche una parte del partito dei Salafiti, unici alleati del deposto Morsi, ma la maggior parte degli altri leader politici sono morti, incarcerati o fuggiti all’estero, così come scrittori e personaggi televisivi come Bassen Youssef, accusati di turbare l’ordine costituito.
Di sicuro la maggior parte dei giovani che parteciparono alle grandi manifestazioni del 2012 e 2013 e che oggi non votano costituzioni, né partecipano ai momenti pubblici di dissenso – consapevoli che l’unico risultato può essere una pallottola in pieno viso – costituiranno la massa critica di domani. Se un giorno ci sarà un’insurrezione all’interno di una prospettiva parlamentare, che non siano, questi giovani, così ingenui da scegliere un presidente che stili una costituzione e poi porti la popolazione al voto parlamentare. Ma compiano esattamente il processo inverso, votando una commissione che stili una costituzione e che dia un’idea delle fazioni che si dovranno presentare in parlamento per poi avere un presidente. Ma già con una con una composizione parlamentare tacita, altrimenti l’Egitto vedrà cambiare costituzioni di continuo lasciando ai gruppi più organizzati l’utilizzo della retorica democratica, al solo scopo di controllare un paese che per quanto povero ha un ruolo geopolitico come alleato di Israele. Oltre a essere un attore cruciale negli scambi di risorse tra Asia e Occidente.
Seppur parzialmente iniziato questo processo di transizione, la figura dell’esercito nella persona di El-Sisi risulta essere troppo dominate da far pensare a elezioni presidenziali senza una figura forte dell’esercito. Le immagini del nuovo leader sono ovunque. La campagna di personalizzazione è solo iniziata e nelle piazze sono in molti a chiedere la sua candidatura.
Napolimonitor