| In risposta al quesito danni fisici provocati dal pugilato questo è uno degli studi che ho ritrovato in materia ma ce ne sono decine sull'argomento. Saluti, Francesco IMMORALITÀ DEL PUGILATO PROFESSIONISTICO Dopo essere stato in coma per cinque giorni, il 23 settembre 2005 è morto per emorragia cerebrale a Las Vegas (Nevada, USA) il pugile statunitense Levander Johnson. Egli era finito knock out nel match con il messicano Jesus Chávez per l’assegnazione del titolo mondiale dei pesi leggeri, nel corso dell’undicesima ripresa, quando l’arbitro aveva interrotto il combattimento in seguito a una serie intensa di colpi al capo che avevano tramortito Levander. Questi aveva lasciato il ring con le sue gambe, ma quasi subito si era accasciato al suolo perdendo conoscenza. Trasportato nel centro medico universitario di Las Vegas, gli fu asportato il grosso ematoma che si era formato nel cervello; ma non ha ripreso più conoscenza ed è morto cinque giorni dopo. Levander Johnson è l’ultima vittima del pugilato professionistico. Si calcola che in cento anni i pugili morti in conseguenza dei colpi ricevuti nei combattimenti sul ring siano oltre 500. Nonostante le polemiche che suscita ogni caso di morte per causa di traumi riportati nei match pugilistici, essi vanno avanti con puntuale regolarità, come se nulla di grave accadesse e come se i morti non contassero nulla. In realtà, è proprio così: i morti nel pugilato non contano nulla; contano, invece, gli enormi interessi che stanno dietro gli incontri pugilistici. Come si deve giudicare, sotto il profilo morale e umano, il pugilato? Per rispondere a questa domanda è necessario conoscere la sua vera natura, poiché ci sono varie forme di pugilato, che sotto l’aspetto morale devono essere giudicate diversamente. Il pugilato è il combattimento (match) tra due atleti di pari peso e di capacità equivalenti, compiuto con i pugni protetti da guantoni. Esso si divide in due grandi categorie: il pugilato di palestra e il pugilato del ring (quadrato). Il primo è un puro esercizio di muscoli, che si combatte con i pugni muniti di guantoni, ma avendo il viso e il capo coperti da un casco e con la proibizione di colpire alcune parti del corpo dell’avversario. Esso si svolge sotto la vigilanza di un maestro e ha come scopo sia il rafforzamento muscolare sia lo sviluppo della prontezza dei riflessi e della capacità di sopportare il dolore. Ha perciò come scopo la formazione fisico-psichica del soggetto. Infatti si svolge in apposite palestre, scolastiche o sportive, e non comporta né titoli né carriere. Quanto al giudizio morale che si può dare di esso, si può dire che, se si mantiene nei limiti di un combattimento inoffensivo, che per sua natura non comporta rischi di mutilazione o di perdita della coscienza, non è moralmente condannabile, anzi può essere utile. Dal pugilato di palestra differisce radicalmente il pugilato del ring. Rileviamo anzitutto che esso è di due specie: il pugilato dilettantistico e quello professionistico. Ci sono tra di esse alcune differenze, che tuttavia non ne cambiano la natura. Ciò che distingue però nettamente il pugilato di palestra da quello del ring è l’agonismo con finalità di carriera in quest’ultimo. Sul ring i due rivali combattono con lo scopo di sconfiggere l’avversario e in tal modo guadagnare il titolo in palio: tale vittoria comporta vantaggi economici notevoli e fama in campo atletico. Perciò i due avversari combattono con tutte le loro forze, usando tutta l’astuzia di cui sono capaci. La vittoria è assegnata dall’arbitro e da una giuria al pugile che ha conseguito un punteggio più alto. Punteggio che è deciso in base ai seguenti fattori: efficacia dei colpi arrivati a bersaglio; maggiore aggressività negli attacchi conclusivi; maggiore capacità di evitare o parare i colpi avversari; abilità nella lotta, condotta delle proprie forze con intelligenza, tattica ed economia. Per essere regolari, i colpi devono essere dati con il pugno chiuso al di sopra della cintura, davanti e ai lati del capo e del corpo. Sono di particolare efficacia i colpi alla punta del mento, alla bocca dello stomaco, alla carotide, al cuore e al fegato. Secondo i regolamenti del pugilato professionistico, «i giudici devono dare la preferenza al pugile che colpisce con maggiore efficacia. Nel caso in cui si siano colpiti in uguale misura, la preferenza può essere data a colui che si è dimostrato più aggressivo. Sarà poi considerato superiore il pugile che nel corso della ripresa avrà colpito più di quanto sia stato colpito». Ciò tuttavia a cui ogni pugile aspira è colpire l’avversario in modo da metterlo knock out, ciò che si ottiene con un pugno sferrato particolarmente alla punta del mento, che può comportare la perdita della coscienza. Il knock out è pronunciato dall’arbitro o quando il pugile, in seguito a un colpo sferratogli dall’avversario, tocchi il tappeto per oltre dieci secondi, oppure cessi di combattere o si appoggi alle corde senza difendersi, oppure non reagisca più ai colpi dell’avversario, che proprio in questo momento diventano più numerosi e feroci. In realtà il knock out è il segno più chiaro della vittoria di chi lo infligge e della sconfitta di chi lo subisce. A questo proposito si deve rilevare che nei campionati mondiali per pugili professionisti, le vittorie per knock out sono assai numerose. Il primo effetto del knock out è il passaggio istantaneo allo stato d’incoscienza e d’insensibilità, per cui chi lo ha subìto di solito al risveglio non ricorda più nulla, neppure il colpo che lo ha messo «fuori combattimento»: avverte uno stato di torpore con senso di vertigine, con ronzii e lampi agli occhi. Se, nonostante tutto, riesce ad alzarsi dal tappeto prima dei dieci secondi e tenta di riprendere il combattimento, egli si trova come in stato di ubriachezza, tanto che compie movimenti incerti, imprecisi e non riesce più a sferrare un colpo efficace all’avversario: in termine tecnico egli è groggy, cioè «ubriaco», «intontito». Ad ogni modo, una facoltà che resta particolarmente toccata dal knock out è la memoria; ma anche quando il combattimento sul ring non si conclude col knock out, le conseguenze della pratica del pugilato professionistico perdurano e si aggravano anche dopo che il pugile ha abbandonato la professione pugilistica. Questi infatti appare (si dice in gergo sportivo) «suonato»: cioè il suo cervello, a livello della corteccia, ha subìto alterazioni organiche di tipo degenerativo, che col passare del tempo si aggravano, compromettendo in maniera grave sia le facoltà intellettive e volitive sia le funzioni organiche. Infatti, un certo numero di pugili anziani è affetto da encefalopatia cronica progressiva, che si manifesta in una forma di demenza vera e propria, in disturbi motori, nello scoordinamento dei movimenti, nell’incepparsi del linguaggio, fino al sorgere del morbo di Parkinson. Ciò non deve meravigliare, perché nel pugilato professionistico i lobi frontali degli atleti riportano lesioni profonde: ad ogni pugno che li colpisce muore un certo numero di cellule, che non si rinnovano; infatti, come è noto, le cellule nervose, del cervello in particolare, a differenza di quelle di altri organi, quando muoiono, ad esempio a causa di gravi urti, non si rinnovano. Ora quando si pensa che in un incontro pugilistico di 10-12 riprese, ognuna di tre minuti, ogni pugile sferra all’avversario anche 1.000 pugni, alcuni dei quali colpiscono il capo, è facile immaginare quanti danni gravi subisce in ogni match il loro cervello. In conclusione, il pugilato professionistico, se in alcuni casi è causa di morte per lesioni cerebrali gravissime, spesso è causa di encefalopatie croniche progressive che riducono i pugili a stracci umani, intontiti ed ebeti. Quello che è essenziale notare è che la morte e l’ebetudine sono accidentali, non cercati e non voluti, ma fanno parte della natura del pugilato professionistico. Infatti il suo scopo è la vittoria di un pugile sull’altro, in base alla quale viene assegnato il titolo di campione in una delle 15 categorie dei professionisti del pugilato. Ora la vittoria consiste sia nel colpire l’avversario con tanta violenza da stenderlo al tappeto o ridurlo alle corde in stato d’incoscienza, sia nel mostrarsi a lui superiore nel colpire con maggiore efficacia, vale a dire per la sua maggiore capacità di danneggiare l’avversario. In altre parole, la vittoria per knock out o «ai punti» è in definitiva e non poche volte frutto di lesioni talvolta mortali o di danni gravi inflitti al cervello. Ciò significa che il pugilato professionistico è una forma di tentato omicidio legalizzato, a breve o a lunga scadenza, nel senso che quando il pugile sconfitto non muore nei giorni successivi al combattimento, porta per tutta la vita segni di morte nel suo fisico e, soprattutto, nel suo spirito: è quello che in gergo pugilistico si chiama il punch-drunk (letteralmente «ubriacatura da pugni»). Quale giudizio morale si deve allora dare del pugilato professionistico, che è l’unico del quale ci stiamo occupando? In base a quanto abbiamo detto circa la sua natura specifica, il giudizio non può essere — sotto il profilo morale — che gravemente e assolutamente negativo. Esso infatti va contro il principio morale naturale — naturale, si badi — e divino: Non uccidere, e per conseguenza non infliggere consapevolmente e volontariamente lesioni tali che conducano alla morte, anche se questa non è certamente voluta, o ad una condizione di vita sub-umana fisicamente e psichicamente, dovuta alle lesioni cerebrali subìte nel match pugilistico. Certo, anche altri sport, come il paracadutismo, l’alpinismo, le corse automobilistiche, le gare calcistiche possono essere causa di morte o di gravi menomazioni fisiche e psichiche; ma, in questi sport, la morte e le menomazioni dell’avversario o proprie non sono cercate e volute, ma sono incidenti dovuti all’imprudenza, alla mancata osservanza delle regole di tali sport, all’imperizia o alla scarsa preparazione ad affrontare i rischi che essi comportano o ad eventi non prevedibili. Perciò si tratta di sport che, per loro natura, sono radicalmente diversi dal pugilato professionistico, e dunque sotto il profilo morale non possono essere posti sullo stesso piano. Due fatti poi aggravano il giudizio moralmente negativo che si deve dare del pugilato professionistico. Il primo riguarda gli enormi interessi economici che stanno dietro ai combattimenti sul ring. In realtà, il pugilato professionistico è manovrato da potenti organizzazioni economiche, spesso spietate e crudeli, per le quali il pugile non è un «uomo», ma soltanto una macchina per fare soldi: egli vale ed è portato in palmo di mano finché vince i match e attira grandi masse di persone ad assistere ai combattimenti; ma appena comincia a declinare e non è più un idolo per il pubblico, egli diventa un peso ingombrante, di cui ci si sbarazza con estrema crudeltà. Non è perciò un caso raro che un pugile «suonato» cada in miseria o finisca sulla strada o in carcere oppure tenti il suicidio, non avendo la vita più nessun senso per lui, che l’ha vissuta unicamente per la gloria e i soldi che il pugilato professionistico gli prometteva, senza rendersi conto che entrava in un giro di morte e di umilianti fallimenti. Il secondo fatto che aggrava il giudizio morale negativo sul pugilato professionistico è che esso scatena nel pubblico che assiste a un match pugilistico sentimenti di ferocia: non solo esso incita il suo idolo a colpire l’avversario fino a stenderlo «al tappeto», ma quando egli riesce a metterlo knock out o alla corda esplode in grida di gioia selvaggia e lo incita a finirlo. Se infatti il match non si conclude in maniera tanto crudele, il pubblico è scontento e lancia invettive contro i combattenti che, per mancanza di aggressività, non li hanno fatti divertire e li fischia, per aver pagato invano. Questo «divertimento» del pubblico di fronte alle sofferenze del pugile sconfitto, è qualcosa di inumano e di spietato, e perciò è moralmente condannabile. Quando tra coloro che la sofferenza umana «diverte» ci sono dei giovani, non è difficile immaginare quanto la loro sensibilità di fronte alla sofferenza umana, che dovrebbe spingerli ad aiutare le persone che soffrono e a lenire i loro dolori, sia gravemente compromessa. La condanna morale del pugilato professionistico è stata espressa molte volte durante tutto il secolo XX, da quando cioè il pugilato professionistico ha assunto la sua forma attuale (l’introduzione dei guantoni risale all’inizio del Novecento). Anche la nostra rivista ne ha parlato, in occasione del match combattuto per l’assegnazione del titolo mondiale dei pesi welter tra il cubano Benny Paret ed Emil Griffith. Questi, dopo aver stroncato Paret con un destro, lo colpì con ben 26 pugni al capo finché si abbatté al suolo. Paret, dopo essere stato dieci giorni in coma, morì il 2 aprile 1962 (cfr Civ. Catt. 1962 II 160-163). Tuttavia la condanna morale, espressa da tutti i moralisti cattolici, non ha minimamente influito sul destino del pugilato professionistico. Esso continua a prosperare come prima. Il motivo è che dietro ad esso ci sono immensi interessi economici e anche di prestigio nazionale oltre ai milioni di appassionati, che rendono difficile la sua soppressione. D’altra parte, non lo si può riformare, per renderlo meno spietato, perché il pugilato professionistico è per sua natura crudele e riformarlo equivarrebbe a sopprimerlo: ciò che nelle condizioni attuali sembra impensabile. Tuttavia, se ne abbiamo parlato, è perché la coscienza umana non può non ribellarsi e tacere dinanzi ad aberrazioni che sono contrarie alla morale umana e cristiana, e gravemente lesive dell’uomo, della sua vita e della sua dignità, né può accettare che la vita umana sia soggetta all’«imperialismo del denaro», o alla passione degli spettatori, come già nei giochi sanguinosi e mortali dei gladiatori, che però, con l’avvento e il diffondersi del cristianesimo, finirono per scomparire. I più anziani ricorderanno che il pugilato, la boxe, è chiamata "nobile arte", o "noble art", visto che i britannici ne rivendicano l'invenzione. E sono proprio i medici britannici, oggi, a chiederne la messa al bando. In effetti però non soltanto da oggi: la British Medical Association fece nel 1981 la sua prima dichiarazione pubblica contro il pugilato, professionistico e dilettantistico; tornò nel 1991 con una nuova campagna, volta a dimostrare che la situazione, quanto a pericolosità, non era cambiata nel decennio. E torna ora con una messe di dati impressionante. Il punto, alla fine, è uno solo: la boxe è l'unico sport il cui fine è causare un danno fisico all'avversario. C'è poco da dire: il ko, tecnico o meno, è il risultato di uno shock inferto al cervello che, sotto l'impatto del colpo inferto alla testa si sposta fino a colpire le pareti interne della scatola cranica. Inoltre, siccome diverse strutture (cervello, vasi, nervi.) si spostano a velocità differenti, quello che si ha è un effetto di rotazione reciproca che aggrava ulteriormente lo shock. D'altra parte, subire un diretto al volto è come essere colpiti da un martello di legno del peso di 6 chili circa che viaggia alla velocità di 32 km/h. Dalla dinamica descritta è facile capire che facciano poca differenza sia l'uso dei guantoni anziché delle mani nude sia indossare il casco come imposto ai dilettanti. Un danno cumulativo Non stupisce che la più frequente causa acuta di morte tra i pugili sia l'emorragia cerebrale. Ma se morire sul ring non è poi così raro, c'è chi sostiene che il rischio è inferiore a quello di altri sport, non tenendo però conto del fatto che gli incontri, per un pugile, sono più brevi di una partita di rugby e anche meno frequenti. E poi non c'è soltanto il danno acuto. Nessuno può più mettere in discussione che si è di fronte a un effetto cumulativo dei traumi. Già nel 1974, un'indagine informale dei neurologi britannici aveva censito quanti e quali sportivi erano arrivati all'attenzione degli specialisti con segni di encefalopatia cronica traumatica: 12 fantini, 5 calciatori, due rugbysti, due lottatori professionisti e 294 pugili. Serve altro? C'è poi da tenere presente un altro fenomeno, che rischia di peggiorare un bilancio già grave: l'arrivo del pugilato femminile e il fatto che non si sia posto un limite di età più elevato. Oggi già a sedici anni si può tirare di boxe ufficialmente e, malgrado si pensi che nei giovani la forza del colpo sia inferiore, e quindi anche i presumibili effetti, già si registrano casistiche di danni cronici in giovanissimi pugili dilettanti. E poi, per chiudere il discorso sui danni cerebrali, basta un dato: l'80% degli ex pugili risente di traumi cerebrali gravi, moltissimi soffrono anche di malattie degenerative, come il Parkinson, l'Alzheimer e la dementia pugilistica. E i danni, in media, si vedono già dopo 16 anni dall'inizio della carriera. Ma non si tratta poi soltanto del cervello: anche vista, udito e olfatto risentono drammaticamente degli insulti dovuti al pugilato. Finché sarà permesso di colpire al di sopra del collo, in definitiva, sarà difficile considerare la boxe "uno sport come gli altri". Alla luce di questo perchè queste cose non si dicono chiaramente ai giovani che si avviano al pugilato che, a mio avviso, non può definirsi affatto uno sport ma solo uno strumento che è in grado agli estremi anche di causare la morte dell'avversario come purtroppo già avvenuto. Se si ha un pò di coscienza è bene tenere ben chiari questi concetti elencati e di farli sempre presenti e renderli chiari e di facile comprensione a chi si avvicina a questa forma di pseudosport. Il fine dello sport a mio avviso deve essere quello di migliorarci e di non causarci mai, nel modo più assoluto, danni fisici, cosa che il pugilato, ahimè, non potrà mai rispettare.
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