Giuseppe Verdi
Milano - Teatro alla Scala: AidaDopo ventuno anni l’Aida torna ad aprire la stagione scaligera senza sciogliere i dubbi e i timori che la messa in scena di quest’opera ha sempre portato con sé.
L’ambivalenza tra gigantismo faraonico ed intimismo psicologico nasce in fin dei conti dalla stessa origine: la commissione del Khedivé d’Egitto. Celebrativa per un verso si scontrava con il rinnovato indirizzo compositivo di Verdi, tutto teso ad esaltare invece una maturità drammatica meno “Bataclan” e più attenta alla delicatezza degli affetti profondi.
E se, per dirla con Mila, il rapido mutamento dei gusti, della cultura e del costume di oggi rende assai difficile tradurre la spettacolarità e il decorativismo dell’opera, per niente facile risulta anche conferire artistica attendibilità alla resa musicale.
Ma immaginate lo stupore del pubblico, e di chi deve descrivervi questa seconda recita, per un episodio che passerà agli annali della prestigiosa Scala come evento a dir poco scandaloso.
Il tenore Alagna alla fine della romanza “ Celeste Aida”, a seguito di qualche intemperante “buuu”, ha abbandonato il palcoscenico, mandando “ a quel paese” il loggione, che lo ha ripagato con un “vergogna” che ha il sapore di un anatema definitivo.
Dopo qualche attimo di disorientamento il sostituto Antonello Palombi, Radamès del secondo cast, vestito in jeans e camicia nera fino alla fine del primo atto, ha proseguito la recita tra il nervosismo dei colleghi e lo sconcerto del pubblico.
In sala si vociferava che Alagna, già adombrato per i commenti piuttosto critici del 7 dicembre, fosse assai nervoso ed incline ad abbandonare al minimo segno di contestazione.
Se questi sono i divi d’oggi… forse è meglio che cantino a Sanremo.
Il sovrintendente Lissner, ben opportunamente, annunciava prima del terzo atto il proprio rincrescimento per l’accaduto e porgeva i rituali ringraziamenti a Palombi.
Complicato a questo punto dar voce serena ai commenti, senza condizionamenti, di una serata per molti versi, suo malgrado, “storica”.
Con la regia e la scenografia di Zeffirelli e i lussuosi costumi di Millenotti l’occhio è sicuramente appagato; cosicché l’Egitto favoloso, tutto rilucente di ori, sfarzo e di virtuosistici e grandiosi movimenti di massa viene esaltato come si poteva ipotizzare.
Musicalmente invece questa Aida non passerà alla storia, ma il maestro Chailly tende comunque un coerente arco narrativo, dall’inizio alla fine, dove non si respira aria da fiabe per bimbi ma si tocca con mano l’umanità di giovani che amano e muoiono sfidando i numi e i potenti, il tutto gestito con inequivocabile correttezza .
Non lesina nella magniloquenza, nella enfatica esibizione di “volume”, nella pomposità esteriore e in tutti i “corposi” concertati da Grand Opèra, in linea con l’altrettanto faraonica messa in scena, relegando l’intimismo e il mistero in fugaci apparizioni qua e là non del tutto risolti.
Non si può negare una certa celebrazione di fondo della implicita teatralità dell’opera, con le cabalette che si dipanano, ad esempio, con ritmo febbricitante; le danze e i ballabili appaiono ben calibrati nella concertazione; sottolineato appropriatamente il contrasto tra il rituale esotico delle sacerdotesse e lo stile liturgico che accompagna i sacerdoti alla consacrazione, pure latita, purtroppo, un vero coinvolgimento emotivo.
Già nel preludio, il tema di Aida, con il suono pieno degli archi, disegna la figura di una donna dolente, senza alonature diafane e trasparenze prive di corpo.
L’andantino del “celeste Aida” ha il passo lento di un innamorato che preferisce al sogno estatico compitare i pregi dell’amata con pragmatismo quasi cinico.
Così come il tema di Amneris ha la pomposità e l’arroganza di una vera principessa, il cui successivo tema d’amore è sì dolce nel suo incedere ma sempre arricchito da una passionalità troppo consapevole del titolo regale.
Il tema della gelosia, per tutto il primo atto, manca di vermicolante nevroticità, sostituita da una più superficiale irrequietezza.
Il tema dei sacerdoti, all’inizio meno cupo e drammatico, ha invece i crismi del respiro inquieto e maligno.
E sempre la tracotanza di Amneris trova terreno fertile anche nell’accompagnamento, meno sensuale del dovuto e più sbalzato da un tangibile desiderio fisico, con cui la principessa egizia risponde agli inviti maliziosi delle proprie schiave.
Il duetto seguente tra Amneris e Aida è survoltato dall’ipertrofismo vocale e dalla perfidia della prima che domina sull’agitazione e la disperazione dell’altra.
Ma la ripresa di “Numi pietà” si acquieta in un efficace morendo pieno di vibrazioni.
La notte stellata sulle rive del Nilo ha tutto l’afoso umidore di una notte tropicale, carica anche di una tensione presaga dell’imminente tragedia.
La vorticosa scala cromatica che disegna il “ Del Nilo i cupi vortici” esalta il dubbio e il tumulto interiore di Aida oltre che la furiosa corrente del fiume.
L’oboe dolcissimo, nella sua lancinante desolazione , intarsia le reminiscenze amate e ormai perdute e si contrappone all’ansia dell’attesa, mentre le balbettanti sincopi degli archi, che
descrivono perfettamente lo sconforto della protagonista, si stagliano su un qui assai cupo motivo dei sacerdoti.
Per nulla significativo risulta purtroppo il duetto Aida-Amonasro anche per l’assoluta inadeguatezza di Guelfi e l’evidente sforzo della Urmana.
Il seguente duetto Aida-Radames ha invece la vibratilità necessaria che esalta il sincero trasporto amoroso dei due, anche se privo di un estatico vaneggiamento.
Il tema della gelosia, con cui principia il quarto atto, descrive finalmente una Amneris che si spoglia della maschera assai ingombrante del semi-dio per indossare i panni di una donna agitata, combattuta dal dubbio bruciante che nulla ormai possa più sull’inesorabilità del giudizio estremo.
L’anatema risulta così ricco di naturale e doloroso furore.
Ed infine un’orchestra trasparente e lieve, come quando si descrivono due esseri ormai privi di corporeità, suggella una Aida di luci ed ombre.
Questa sera, se al titolo di sempre si fosse sostituito quello di Amneris per nulla avremmo offeso il Maestro Verdi.
Sì perché, senza scomodare gli aurei confronti con il passato, Ildiko Komlosi è apparsa senza dubbio una buonissima Amneris. L’emissione sontuosa, lievemente “pompata” nei gravi ma torrenziale nei centri, e dagli acuti timbratissimi ha configurato una principessa credibile che ha fatto valere più di un carattere proprio del personaggio.
Non ha fatto sfoggio, forse, di particolare cura nel fraseggio, mancando sinceramente in sensualità e in dissimulazioni maliziose, ma la sua protervia ben esibita e la trasformazione nel finale in una donna “sola” ed affranta il dovuto, si ascolti al proposito “ E in poter di costoro io stessa lo gettai” o la furia con cui lancia il suo La acuto nell’anatema contro i sacerdoti o ancora il suo requiescat tutto intriso di vibrante disperazione, ha marcato nell’arco delle serata questa performance come non tutti gli altri protagonisti hanno saputo evidenziare.
Violeta Urmana canta Aida con lirismo e, quando richiesto, con delicatezza; sa legare ed accentare con gusto, pure la parte è al limite per le sue corde.
Gli acuti risultando tutti un po’ “sottili” di corpo e come emessi con una tal quale paura, vedi la salita al Do acuto raggiunto con una presa di fiato non proprio opportuna.
L’interprete sembra ancora incerta nel fraseggio, preferendo una generica agitazione nei duetti con Amneris, una eccessiva soggezione con il padre e una poco convinta esibizione di gelosia nel duetto con Radamès al terzo atto, dove il nervosismo deve aver condizionato parecchio certe sue emissioni, trasformandole in asprezze piuttosto evidenti.
Tuttavia si ricordano anche buoni momenti: l’accorata malinconia del “ A Radamès… a lui ch’amo pur tanto” nella romanza del primo atto; i toni sommessi con cui termina il “ Numi, pietà del mio soffrir” in un morendo carico dello sconforto di chi sa di pregare invano; un discreto “ O cieli azzurri” e il finale dolcissimo con i Sibm presi con esibita naturalezza.
Per descrivere il Radamès di Alagna viene spontaneo ricordare la favola della “ rana e del bue” di Fedro.
Quella del guerriero egizio è parte decisamente troppo “larga” per lui.
Anche se il commento si limita solo al “Celeste Aida” è palese il tentativo di gonfiare i centri, col ché le note di passaggio si ingolfano – già i Fa e i Sol suonano opachi - e gli acuti appaiono voluminosi, aperti e poco squillanti, vedi il Sibm finale, questa sera non ripreso all’ottava bassa.
L’interprete è poi comunque deludente. Il “ Se quel guerrier io fossi” e l’allegro vivo con entusiasmo di “ un esercito di prodi…” hanno un tono dimesso che in nulla l’apparentano ad un condottiero, così come per niente sognante appare tutta la romanza.
Dato il giusto peso al coraggio di Antonello Palombi, gettato nella mischia così all’improvviso, non si può negare che il timbro fibroso e sgraziato, una emissione ingolata gli consentono solo di cantare tutto forte, senza fraseggio né legato.
Monotono e monocromo risulta così tutto il terzo atto, mentre migliore appare nel quarto anche se gli acuti sono parecchio sbiancati.
Se i Radamès deludono l’Amonasro di Guelfi è senza voto, tanto la sua voce non è da baritono verdiano, né tanto meno da re degli etiopi.
Timbro troppo chiaro e già da qualche tempo inaridito. Nasale nell’emissione è affetto anche da pronunciato vibrato, che è la risultante di un palese ed improbo sforzo per ricercare un volume, ahi lui, assente.
Se sfoggia un sufficiente legato in “ Ma tu, Re, tu signore possente” non altrettanto appropriato riesce l’allegro del selvaggio e potente sfogo contro Aida, che finisce per giunta in una plateale declamazione nella maledizione.
Il Ramfis di Giuseppe Giuseppini non ha neppure lui un volume significativo, ma un discreto controllo del fiato gli consente di essere corretto vocalmente, anche se fibroso negli acuti; l’interprete però ha più del pacioso precettore che l’autorevolezza del terribile inquisitore e capo dei sacerdoti.
Sufficiente il Re di Marco Spotti e in difficoltà nelle colorature la sacerdotessa di Sae Kyung Rim
Il messaggero di Antonello Ceron appare senza dubbio un guerriero affaticato dalla battaglia.
Da elogiare le coreografie essenziali di Vassiliev, ma quella degli schiavetti mori era sinceramente grottesca, e ovviamente bravissimi gli interpreti principali: Luciana Savignano, Myrna Kamara e Roberto Bolle.
Applauditi meritatamente e a lungo a scena aperta.
Strepitoso il coro diretto da Bruno Casoni ed un encomio va a tutta l’orchestra con particolare sottolineatura alla espressività della sezione dei fiati.
Tornando allo spettacolo, viene da considerare che in definitiva l’Egitto hollywoodiano alla Cecil B. De Mille o alla Joseph Mankiewicz, che ha trasformato il palcoscenico in un set cinematografico, ha stornato disgraziatamente l’attenzione dall’Aida di Verdi.
Una miriade di sottili bacchette dorate sospese davanti alla scena ad impreziosire il già esagerato scintillio; pitture e geroglifici copiati dagli originali del tempio di Karnak a dare parvenza di verosimiglianza assolutamente inutile; una scenografia rutilante e kitsch, dove faceva bella mostra di sé persino il bue-Api, ricca di tutto il più sorprendente trovarobato non altera minimamente l’impressione che desta nell’appassionato melomane: un conto è la messa in scena, da stropicciamento d’occhi, un conto è la regia che latita in maniera disarmante.
Un andirivieni continuo, un affastellamento di persone ed oggetti, infatti, a stordire più che a chiarire evidenzia una verità incontrovertibile: mancanza di idee su come far muovere credibilmente i protagonisti, che vagolano senza posa e costrutto teatrale.
Disarmante poi vedere i due innamorati perennemente lontani l’uno dall’altra come perfetti estranei.
Persino nel finale si distoglie lo spettatore dall’ascolto di quell’autentico prodigio d’orchestrazione che è la morte di Aida e Radamès, quella sì un momento di sincera emozione.
Amneris affranta dovrebbe rimanere, secondo didascalia, “sola” sulla tomba dell’amato, ma anche qui quattro dei-Horus svolazzanti, già piombati giù dal cielo durante la consacrazione, e una flessuosa Savignano, incolpevole sia chiaro, finiscono per togliere quel poco di “religiosità” rimasta.
Il pubblico applaude convinto; evidentemente ha ragione Zeffirelli.
Ugo MalasomaFonte:
http://www.operaclick.com/index.php Roberto Alagna
immagine di scena
Ildiko Komlosi
Violeta Urmana e Ildiko Komlosi
balletto
Roberto Alagna e Violeta Urmana
Antonello Palombi, sostituto di Roberto Alagna