Mal d'Egitto

Egittologia

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hayaty
view post Posted on 2/4/2007, 12:57




Intervista all'Egittologo Gaballa Aly Gaballa
A cura di Alain Elkann

01/04/2007

Professore, lei è stato segretario generale del «Supreme Council of Antiquities» dal 1997 al 2002. Come è iniziata la sua carriera?
«Ero studente nel ’57 al Cairo, poi a Liverpool, dove ho preso il mio PhD, dopo sono stato curatore al Museo Egizio del Cairo e professore all’Università, quindi capo del dipartimento di Egittologia e infine Rettore della Facoltà di Archeologia. Nella vita ho insegnato a Rabat in Marocco, in Florida, in Kuwait e all’Università americana del Cairo».

Cosa significa, oggi, essere egiziano?
«Essere sovraccarico di una lunghissima tradizione. L’egiziano è una persona le cui radici sono in Africa, ma che sente di essere anche parte di una tradizione mediterranea».

Cosa pensate della vostra civiltà?
«Tutti gli egiziani sono molto orgogliosi di avere una delle più antiche civiltà del mondo e un ruolo centrale nella civiltà arabo-musulmana. L’Egitto è il luogo di nascita dell’ebraismo e, allo stesso tempo, è anche la terra che ha accolto Gesù con la sua famiglia: è una delle prime civiltà che hanno abbracciato il Cristianesimo».

Com’è cambiata l’egittologia?
«L’egittologia è un fenomeno europeo nato in Francia, Inghilterra, Germania, Italia. Gli scavi erano europei, così come i restauri e le collezioni, come quella del museo di Torino. Champollion ha decifrato per primo i geroglifici nel 1822, Schiapparelli all’inizio del ’900 ha scoperto la tomba di Kha, per esempio. Ma gli stranieri lavorano ancora in Egitto e tra l’altro oggi sono arrivati anche molti americani e giapponesi».

Da quanto tempo nessun pezzo può uscire dall’Egitto?
«Fino al 1983 alcuni pezzi di scavi andavano a chi faceva gli scavi o alle istituzioni che li finanziava. Dal 1983 nessun pezzo lascia più l’Egitto».

Dove vanno a finire i reperti?
«Appartengono al governo egiziano che, da sette anni, promuove un progetto per costruire musei in ogni capitale, in ogni governatorato di Egitto. Il programma è cominciato ad Azish nel nord del Sinai, poi a Suez, a Hurghada sul Mar Rosso e così via. E poi arriveranno altri grandi musei, tra cui il nuovo Museo Egizio che sarà a tre chilometri dalle grandi Piramidi e sarà il più importante museo al mondo. Verrà finito nel 2011. Nella parte vecchia del Cairo stiamo anche costruendo il Museo Nazionale della Civiltà Egizia, con l’aiuto dell’Unesco».

Ma perché Cleopatra è così famosa? Era davvero così bella?
«Era bellissima. La giudicavano brutta quelli che guardavano il suo viso solo sulle monete, ma se si guardano le statue di marmo era bellissima. La fama di Cleopatra, però, deriva dalla sua forza e carattere».

Quanti sono i turisti che arrivano in Egitto?
«Circa sei milioni, di cui ottocentomila gli italiani» .

Quali sono i capolavori egizi nel mondo?
«A Hildesheim in Germania c’è la statua di Hemiunu che crediamo fosse il principale architetto responsabile della costruzione della grande piramide, al Louvre di Parigi c’è la famosa statua dello Scriba, al Metropolitan di New York la statua della più celebre regina dell’antico Egitto, Hatshepsut, a Boston c’è il busto di un principe Hankh-ha-f. A Torino ci sono due pezzi unici: il Papiro chiamato «Il Canone dei Re» che riporta i nomi dei re egiziani (3200 prima di Cristo) fino alla fine della diciassettesima dinastia, 1570 prima di Cristo. Poi c’è la statua di Ramses II che, è uno dei rari capolavori della diciannovesima dinastia, tredicesimo secolo prima di Cristo».

Quali sono i principali musei egizi del mondo?
«Il Cairo è il numero uno, in Europa c’è il museo egizio a Torino, il Louvre a Parigi, il British Museum a Londra, il museo di Berlino, l’Hermitage a San Pietroburgo e negli Stati Uniti ci sono il Metropolitan a New York, il museo di Brooklyn e il Museum of Fine Arts di Boston ».

Perché l’egittologia è così popolare?
«L’Egitto ha acceso l’immaginazione dell’Europa fin dai tempi dei greci, quando storici come Erodoto raccontarono la nostra storia. Poi, quando Napoleone, nel 1798, conquistò l’Egitto, portò con lui molti scienziati e uomini di lettere che scrissero "Description d’Egypte". Da allora è nata l’”egittomania”. Credo che gli Europei trovino in Egitto qualcosa che è già profondamente nel loro cuore. L’Egitto è la prova che il genere umano vive in eterno: ognuno di noi ha bisogno di crederci».

Qual è il suo impegno nel comitato scientifico del museo egizio di Torino?
«La raccolta egizia del museo di Torino è una delle più importanti al mondo: sono affascinato dal fatto che qui c’è un nuovo modo di pensare e di occuparsi delle collezioni».

La Stampa
 
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hayaty
view post Posted on 12/4/2009, 09:30




Archeologia: ritrovata copia diario Ricci, esploratore in Egitto

Venerdì 10 aprile 2009 20.13

E' stato ritrovato, dopo una caccia di quasi duecento anni e dopo circa ottanta anni dall'ultimo avvistamento, il giornale di viaggio di Alessandro Ricci, senese, primo italiano che all'inizio dell' Ottocento si avventurò in zone inesplorate di Egitto e Sudan raccontando luoghi e popoli sconosciuti. Il merito della scoperta, informa il giornale dell' Università di Pisa, va al dottor Daniele Salvoldi che ne ha ritrovato una copia lavorando al progetto 'Rosellini' coordinato dalla professoressa Marilina Betrò del dipartimento di scienze storiche del mondo antico dell'Ateneo pisano. Il progetto riguarda la spedizione franco-toscana del 1828-29 guidata dal pisano Ippolito Rosellini insieme a Jean-Francois Champollion che di fatto ha contrassegnato, dopo la prima decifrazione del geroglifico a opera dello stesso Champollion nel 1822, la nascita della moderna egittologia.


Unione Sarda
 
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O t t a
view post Posted on 6/2/2012, 16:00




4 febbraio 2012

C’erano una volta gli esploratori. E c’era anche il Grande Belzoni

Scritto da Claudio Castellacci

È il 18 ottobre 1817 quando Giovanni Battista Belzoni, uno dei personaggi più eclettici dell’egittologia, entra – sfondando l’ingresso con un tronco di palma usato a mo’ d’ariete – nella tomba del faraone Seti I.

«Oltrepassata lo piccola apertura, ci trovammo in una bellissima sala nella quale vi erano quattro pilastri», scrive Belzoni nel suo diario. «Questa sala è ricoperta di figure che sono così perfette da sembrare disegnate il giorno prima. Notammo che le pitture diventavano più belle man mano che avanzavamo. I colori erano coperti da una specie di vernice lucida che produceva un bellissimo effetto. Da una parte e dall’altra di questa stanza se ne apre una più piccola. Chiamai quella a destra la “Camera di Iside”, perché vi si trova dipinta una grande vacca. Quella di sinistra la chiamai la “Stanza degli armadi” perché aveva una sporgenza lungo le pareti come una sorta di armadio, destinata forse a contenere gli oggetti necessari alla cerimonia funebre».

La tomba di Seti I (ovvero di “colui che appartiene al dio Seth”, patrono dell’antico Egitto, il secondo faraone della XIX dinastia che regnò tra il 1320 e il 1200 a.C.) era rimasta intatta per tremila anni. L’importanza di quel ritrovamento è pari a quello della tomba di Tutankhamon che sarà scoperta solo un secolo più tardi da Howard Carter.

Belzoni ha trentanove anni e una vita avventurosa alle spalle. È nato a Padova nel quartiere Portello, il suo vero nome è Bolzon, e ama spacciarsi per inglese. Ha lavorato come garzone nella bottega di barbiere del padre, è stato in seminario a Roma, ha militato nell’esercito prussiano ed è scappato in Inghilterra per evitare di finire coscritto in quello napoleonico. Giovanni Battista Belzoni, personaggio salgariano avanti lettera, racchiude in sé quella passione per i viaggi e per le avventure che di lì a poco si spargerà come un’epidemia anche nel nostro Paese, fino ad allora abbastanza restio a lasciarsi coinvolgere in questo tipo di attività tipicamente britannica.

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Giovanni Battista Belzoni


Eppure sono tanti gli italiani sconosciuti – commercianti, avventurieri, missionari, cacciatori, militari, giornalisti, politici, ma anche scienziati di chiara fama, geografi, geologi, zoologi, botanici, antropologi – che, come Belzoni, andranno ad infittire, intorno alla seconda metà dell’Ottocento, un particolare periodo della storia d’Italia, quella schiera di esploratori che come scrive Stefano Mazzotti, divulgatore scientifico con all’attivo più di cento pubblicazioni di settore, in un libro curioso e affascinante, uscito da poco, dal titolo Esploratori perduti (Codice Edizioni, pagg.246, euro 16), erano accomunati «da un unico spirito di conoscenza e di esplorazione, da una curiosità che li rendeva irrequieti in patria e formidabili perlustratori e raccoglitori di nuove conoscenze, nelle più esotiche “terre incognite” e che avrebbero finito col dato un forte impulso alle conoscenze geografiche e scientifiche sul mondo». Si tratta per lo più di personaggi poco conosciuti dal grande pubblico, ma le cui storie non hanno niente da invidiare ai più noti nomi della tradizione anglosassone.

«Nell’Ottocento la passione per i viaggi e le esplorazioni si trasformò in una vera e propria moda»,
in quegli anni, annota Mazzotti, lui stesso esploratore e buon conoscitore di foreste tropicali, «nacquero le prime riviste specializzate e i giornali riportavano resoconti di viaggi esotici in paesi lontani facevano letteralmente viaggiare con la fantasia. Dal 1840, con le esposizioni internazionali e coloniali, tutti potevano vedere e toccare con mano oggetti naturali (rocce, minerali, serpenti e coccodrilli, uccelli dalle piume colorate e mammiferi) mai visti prima. In questo periodo si diffusero mappe, mappamondi, disegni e opere di raffigurazione realistica di paesaggi, animali e piante, ma soprattutto fotografie di uomini che, nell’immaginario collettivo (e non solo…), mettevano in contatto le belle signore della borghesia, con i loro cappellini ornati di graziose piume di uccelli del paradiso, con “feroci cannibali”. Si arrivò persino a esporre “esemplari viventi di selvaggi”, uomini di diverse etnie portati in Europa per soddisfare un perverso voyeurismo del pubblico di quei tempi La passione per i viaggi si diffuse anche grazie alla letteratura che in quel periodo trovò una potente fonte di ispirazione nei resoconti dettagliati dei primi esploratori naturalisti; è il periodo in cui il romanzo d’avventura conosce una notevole fioritura. Emilio Salgari, uno degli esponenti più noti di quel tipo di letteratura, trasse buona parte delle sue ambientazioni e dei personaggi dai resoconti delle esplorazioni scientifiche nel Borneo di Odoardo Beccari».

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Odoardo Beccari: le sue opere ispireranno i romanzi di Emilio Salgari.



Beccari, naturalista e botanico, era partito per il Borneo nel 1865 al seguito di James Brooke, Rajah di Sarawak, dove soggiornerà per tre anni compiendo importanti studi di botanica. Nelle sue opere racconterà di foreste dove «gli abitanti conducono una vita primitiva ed in parte sono tutt’ora selvaggi dediti alla caccia dei loro simili di cui conservano le teste affumicate sospese nell’interno delle abitazioni», proprio quelle foreste che scateneranno la fantasia di Emilio Salgari e dei suoi contemporanei.

Belzoni non fa parte dell’elenco degli esploratori studiati da Mazzotti
perché fuori dagli schemi e fuori dal periodo in esame, ma Belzoni è il personaggio che più mi aveva interessato e di cui mi ero occupato qualche tempo fa. Ecco qui la sua storia che, idealmente, si aggiunge a quelle narrate da Mazzotti.

Belzoni era alto 2 metri e dieci, di corporatura massiccia e con una folta chioma rossa aveva cominciato a lavorare come buffone nei circhi di Londra con il soprannome di Sansone Patagonico, facendo divertire con le sue piramidi umane e i suoi straordinari giochi d’acqua, grandi, bambini e pure i soldati di Wellington in marcia verso Waterloo.

Con grande facciatosta Belzoni si presenta al califfo Mohammed Ali Pascià, ex mercenario albanese diventato vicerè d’Egitto, spacciandosi, senza successo, per profondo conoscitore di ingegneria idraulica. Scrive nel suo diario: «Mia moglie Sarah, io e James Curtin, un giovane che avevo condotto con me dall’Irlanda, salpammo da Malta il 19 maggio 1815 e arrivammo il 9 giugno ad Alessandria. Lo scopo principale del mio viaggio in Egitto era quello di costruire macchine idrauliche per irrigare i campi con un sistema molto più facile ed economico rispetto a quello in uso laggiù». Il fatto è che però il califfo scopre di trovarsi davanti un improvvisatore e lo caccia da corte.


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Il furto della testa del faraone Ramses II. Belzoni racconta nelle sue memorie come abbia trafugato il gigantesco busto, lo abbia trainato, per terra e per fiume, per 15 giorni e con l’aiuto di 130 uomini. La testa oggi si trova al British Museum di Londra.



Ma la fortuna evidentemente assiste i temerari
e Belzoni si imbatte nel diplomatico inglese Henry Salt, per conto del quale rimuoverà la testa della statua di Ramses II dal Ramesseum (il complesso architettonico dedicato al grande faraone nella piana di Deir el-Bahari) e la trasporterà al Cairo lungo il Nilo. L’impresa sarà descritta in Viaggio e scoperta in Egitto e in Nubia, dove Belzoni racconta come abbia trafugato il gigantesco busto, lo abbia trainato, per terra e per fiume, per 15 giorni e con l’aiuto di 130 uomini, precisando che «il complesso degli strumenti necessari all’impresa era consistito in pochi pali e corde di foglie di palma». Oggi quella testa è in mostra al British Museum di Londra.

La personale sfrontatezza di Belzoni, la sua morbosa sete di conoscenza, il suo spirito vagabondo unito alla totale mancanza di regole che al tempo regnava nel campo dell’archeologia permettono all’avventuriero padovano di trasformarsi in esploratore e diventare, nel giro di pochi anni e suo malgrado, una delle maggiori figure dell’egittologia.

Consapevole delle proprie doti, oltre che della sua stazza, si fa chiamare The Great Belzoni, il Grande Belzoni. Una mania di grandezza che lo porta a “firmare” le sue scoperte. Scalfisce il suo nome dietro l’orecchio della testa di Ramses II, nonché sul piede sinistro della statua in granito nero di Amenofi, così come sull’altare delle sei divinità del tempio di Montu sottratto a Karnak, e perfino su una delle pareti della stanza funeraria della tomba di Seti I. Un graffitaro avanti lettera e anche un buon preveggente nel volersi attribuire la scoperte visto che, a distanza di due secoli, il British Museum si guarda bene dal farlo. Soprattutto dall’informare che, all’epoca, i dirigenti del museo snobbarono l’offerta di Belzoni di acquistare, per 2000 sterline, il sarcofago in alabastro del faraone Seti I che Belzoni si era portato dietro in Inghilterra. Il sarcofago venne poi acquistato dall’architetto John Soane nel cui palazzo si trova tutt’oggi.

La personale sfrontatezza di Belzoni, la sua morbosa sete di conoscenza, il suo spirito vagabondo unito alla totale mancanza di regole che al tempo regnava nel campo dell’archeologia permettono all’avventuriero padovano di trasformarsi in esploratore e diventare, nel giro di pochi anni e suo malgrado, una delle maggiori figure dell’egittologia.

Consapevole delle proprie doti, oltre che della sua stazza, si fa chiamare The Great Belzoni, il Grande Belzoni. Una mania di grandezza che lo porta a “firmare” le sue scoperte. Scalfisce il suo nome dietro l’orecchio della testa di Ramses II, nonché sul piede sinistro della statua in granito nero di Amenofi, così come sull’altare delle sei divinità del tempio di Montu sottratto a Karnak, e perfino su una delle pareti della stanza funeraria della tomba di Seti I. Un graffitaro avanti lettera e anche un buon preveggente nel volersi attribuire la scoperte visto che, a distanza di due secoli, il British Museum si guarda bene dal farlo. Soprattutto dall’informare che, all’epoca, i dirigenti del museo snobbarono l’offerta di Belzoni di acquistare, per 2000 sterline, il sarcofago in alabastro del faraone Seti I che Belzoni si era portato dietro in Inghilterra. Il sarcofago venne poi acquistato dall’architetto John Soane nel cui palazzo si trova tutt’oggi.

Ma le lacune e la trascuratezza degli inglesi non sono accidentali e ancora oggi sembra che nulla riesca a riscattare la grandezza di Belzoni il cui grande torto, ai loro occhi, era di essere italiano. A nulla gli era servito aver liberato dalla sabbia, nel 1817, il sito di Abu Simbel – 280 chilometri a sud di Assuan, sulla riva occidentale del Nilo, oggi vicino al lago artificiale Nasser e riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’Umanità – i cui due templi furono ricavati dalla montagna dal faraone Ramses II, figlio di Seti I, nel XIII secolo a.C.

Non è servito neppure aver scoperto l’ingresso alla tomba di Chefren ed esserci entrato per primo. La storia dell’antico Egitto degli ultimi duecento anni continua a ignorarlo. Il suo diario di viaggio pubblicato a Londra nel 1820, molto apprezzato all’epoca, non è stato quasi più ristampato. Sembra che gli addetti ai lavori anglo-egiziani si siano anche dimenticati che Belzoni organizzò la prima mostra al mondo di antichità egizie e tutta Londra potè ammirare i disegni che lui stesso aveva ricopiato nella tomba di Seti I. Un vuoto inspiegabile, questo boicottaggio, anche perché Belzoni, oltre a essere un personaggio affascinante è, forse, il primo esploratore a operare con rigore scientifico, pur non avendo alcuna cognizione in materia. Un autodidatta promosso archeologo sul campo. Forse Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, di mestiere mercante di tappeti, era uno studioso?

Per la cronaca, a Belzoni si deve anche la replica di due delle stanze della tomba di Seti I che sono esposte nella Egyptian Hall del British Museum. E proprio lo scoperta della tomba di Seti I provocherà in Europa un’ondata di Egittomania pari a quella che poco più di un secolo dopo, nel 1922, si scatenerà in seguito alla scoperta della tomba di Tutankhamon da parte del britannico Howard Carter

Oggi la tomba di Seti I, identificata dagli archeologi con il codice KV17 e soprannominata «Tomba Belzoni», viene anche chiamata la Cappella Sistina egizia per le sue eccezionali decorazioni e proprio per l’importanza di questo sito e il suo enorme valore storico e artistico, la tomba, già degradata nel corso degli ultimi secoli, non è aperta al pubblico: vi sono ammessi solo capi di Stato in visita in Egitto.

Il 3 dicembre 1823 Giovanni Battista Belzoni muore improvvisamente colpito da febbri misteriose a Gwato, in Nigeria, ai confini del Benin, sulla strada per Timbuctù, durante una spedizione alla ricerca delle sorgenti del Nilo, senza essere mai diventato ricco. E purtroppo neanche famoso.

Leiweb
 
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O t t a
view post Posted on 25/11/2012, 18:01




Inchiesta: La vita nell'Antico Egitto

Domenica 25 Novembre 2012 - 14:08

di Marina Caruso

Gli Egizi mantennero un alto livello di civiltà per 3000 anni circa. Questa stabilità fu data dalla loro struttura sociale e dalle credenze religiose. L’Egitto contava diversi milioni di abitanti in maggioranza contadini che venivano assegnati a nobili proprietari terrieri o a templi. Vivevano in casupole di fango, mentre i ricchi nobili possedevano grandi case con bagni, cortili e vestiboli. I contadini coltivavano frumento e orzo, producevano il lino per tessere la tela e allevavano bestiame.

Nei villaggi e nelle città abili fabbriferrai fabbricavano martelli, seghe, trivelle di bronzo e di rame; carpentieri costruivano utili oggetti di legno; gioiellieri creavano ornamenti d’oro, di turchese e corniola; tessitori lavoravano preziose stuoie e cuscini per le case dei ricchi. La maggior parte dei servi, degli artigiani, dei mercanti e dei soldati credeva in una religione esercitata da sacerdoti che ornavano il faraone come il dio-re regnante. La religione aveva una parte fondamentale nella vita di ognuno: più di 2000 divinità governavano eventi come la nascita e la morte, erano mensionati da tutti ed erano associati alla numerazione e così via; Osiride dio della morte e Ra dio del sole, erano dei venerati in tutto il territorio. Nell’Antico Regno gli uomini credevano che ogni faraone vivente fosse il figlio di Ra e che ogni faraone morto fosse Osiride. Ritenendo che il benessere dei faraoni dopo la morte contribuisse alla prosperità dell’Egitto, i sacerdoti mummificavano i loro faraoni morti e li circondavano di cibo, vino, pietre preziose e mobili seppellendoli dentro piramidi, destinate appunto ad aiutare l’anima dei faraoni ad andare in cielo.

In teoria tutto l’Egitto apparteneva al faraone, ma in realtà molte famiglie si passavano in eredità i possedimenti di generazione in generazione per mezzo del “documento della casa”, una specie di documento legale. La proprietà veniva trasmessa in linea materna, poiché le donne ricoprivano un posto importante nella società. Ogni faraone governava per mezzo di funzionari i cui capi erano cancellieri e ministri. I principi, il cui titolo era ereditario, governavano una provincia e amministravano la giustizia per mezzo delle loro stesse corti, mandando però le cause più importanti al Gran Kebet, o alta corte, che si trovava nella capitale.

Ai confini d’Egitto funzionari speciali esigevano le tasse per l’erario. Non era ancora stato inventato il denaro sotto forma di moneta, cosicché di solito le tasse venivano pagate con merci. Gli agricoltori, ad esempio, pagavano con il grano e con questo i faraoni pagavano i loro servi e alimentavano l’Egitto durante gli anni di carestia. I faraoni, sebbene potentissimi, dipendevano dai sacerdoti e dagli scribi per mantenere il regno a tale livello di civiltà, poiché essi soli conoscevano l’astronomia e la matematica e una forma di scrittura per registrarle. Essi inventarono il calendario di 365 giorni e per risolvere il problema del quarto di giorno in più per ogni anno, aggiunsero un anno intero ogni 1460 anni.

Nelle scuole dei templi si imparava a scrivere sui rotoli di papiro, una carta ricavata dalle canne di papiro; lunghe circa 30 metri potevano contenere tanto testo quanto un’intera biblioteca di tavolette d’argilla. Uno scolaro doveva conoscere alla perfezione centinaia di segni prima di essere in grado di leggere, scrivere o far calcoli. Gli Egiziani avevano inventato un sistema di cifre che permetteva loro di contare fino al milione, ma era un sistema mal costruito che richiedeva 27 cifre per scrivere il numero 999.

Sebbene in certo qual modo l’Egitto fosse meno evoluto della civile Mesopotamia, la sua civiltà prosperò con successo attraverso i secoli.

Paternesi
 
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O t t a
view post Posted on 21/1/2014, 10:16




ATTIVITA' DIDATTICA

21 gennaio 2014

"Gli amuleti dell'antico Egitto" alla scuola media di Cerrina

L'iniziativa era rivolta agli studenti delle prime classi

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CERRINA Si è svolto nella scuola secondaria di I° grado di Cerrina l'interessante laboratorio di manipolazione dell'argilla dal titolo “Gli amuleti dell’antico Egitto” a cura dell'egittologa Sabina Malgora, rivolto agli studenti delle due classi prime. Nell'ambito del progetto, le classi interessate hanno studiato e approfondito l'importanza dei talismani, ritenuti magici dagli antichi egizi. Dapprima hanno studiato le loro forme, i loro significati, poi le storie delle persone che li indossavano per trarne fortuna e prosperità, la loro rilevanza nel campo archeologico. In un secondo momento, i ragazzi - con molto entusiasmo – hanno modellato i loro stessi talismani, con l'aiuto della relatrice e della professoressa Fulvia Chiesa. Ognuno in conclusione, soddisfatto del proprio lavoretto manuale, ha portato a casa il personale talismano, sperando che l'oggettino creato possa portare fortuna e prosperità.

Alessandrianews
 
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