Andando sui classici:
"LE FANTASTICHE AVVENTURE MARINARESCHE
DI ARTHUR GORDON PYM"
Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 - Baltimora, 7 ottobre 1849) è uno degli scrittori più indagati in senso assoluto: in Italia credo che sia l’autore americano su cui esistano (originali o tradotte) il maggior numero di biografie e disamine critiche. Dopo che l’analisi letteraria e poliziesca, semiologica e orrorifica, scientifica ed estetica, sociologica e fantascientifica, filosofica e psicoanalitica, strutturalista e addirittura psicopatologica l’hanno sezionato in lungo e in largo, è ancora possibile dire qualcosa di nuovo? Forse sì, se si adottano strumenti critici un po’ fuori dall’ordinario, spesso sfiorati ma mai utilizzati sino in fondo.
Intanto si può dire senz’altro che questa Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket, uscita parzialmente a puntate sul Southern Literary Messenger di Richmond, di cui Poe era direttore, nei fascicoli di gennaio e febbraio 1937, e poi in volume completo nel luglio 1838 per la casa editrice Harper, pur con i limiti dell’ occasionalità (era stata scritta su incoraggiamento dell’amico John Paulding, che inutilmente aveva cercato di far pubblicare una sua antologia di racconti, per cercare d’imporsi invece come autore di romanzi), rimane un’importante pietra miliare nella letteratura americana, in quanto "un modello di sea novel tra i primi", come ha sottolineato Gabriele Baldini (Edgar A. Poe. Studi, Morcelliana, 1947): pur suggestionato per temi e argomenti da La ballata del vecchio marinaio di S.T.Coleridge (1798) e da Il pilota di J.F.Cooper (1824), a sua volta influenzò, in alcuni casi profondamente, i maggiori autori di lingua inglese che scrissero romanzi di mare, da Melville a Stevenson a Conrad: Moby Dick (1851), L’isola del tesoro (1883), Il negro del "Narciso" (1898) e Tifone (1903) ne mantengono echi notevoli e, soprattutto il capolavoro di Melville, riferimenti precisi.
Gordon Pym è comunque anche significativo se considerato all’interno della produzione letteraria dello stesso Poe, perché vi si ritrovano molteplici riferimenti alle sue tematiche più caratteristiche, o già accennate in famossissimi racconti precedenti, o sviluppate poi in altrettanto famose storie: nell’episodio della chiusura all’interno della stiva del Grampus e nel seppellimento a causa di una frana nella caverna dell’isola di Tsalal, per esempio, c’è quel terribile senso di claustrofobia e la paura di essere sepolto vivo già presente in Berenice (1835) e che raggiungerà il culmine con Il pozzo e il pendolo (1843) e Le esequie premature (1844); i sogni inquieti e gli incubi di Pym saranno poi tipici di Silenzio (1838); l’apparizione della nave olandese carica di morti in putrefazione (ovviamente una reminiscenza della leggenda dell’Olandese Volante) si rifà a Ombra (1835); la calata negli abissi marini, il vortice che inghiotte, l’uragano travolgente sono già nel Manoscritto trovato in una bottiglia (1833) e si ripeteranno in Una discesa nel Maelstrîm (1841), ma l’orrore della caduta nel baratro è anche in uno dei suo capolavori, Il crollo della casa degli Usher (1839), dove la palude prende il posto del mare. Insomma, il romanzo diventa così una specie di summa dei principali temi poeschi.
Già tutto ciò ne segnala l’importanza, che va al di là del lato popolare ed avventuroso tipico dei romanzi marinareschi esemplificativi di un’epoca, che va dal Settecento alla prima metà del Novecento, in cui l’avventura tout court, nel suo aspetto più drammatico, esotico e misterioso, si svolgeva per mare, allorché mari ed oceani erano una distesa ancora per molti versi sconosciuta, pericolosa e fonte di terrori e meraviglie: e così nel Gordon Pym troviamo la caratteristica fuga per mare di tanti giovani adolescenti inglesi e americani, l’ammutinamento a bordo e la strage dell’equipaggio, burrasche e tempeste distruttive, la deriva sulle acque, la fame e addirittura il cannibalismo, il naufragio e la salvezza, l’esplorazione di terre ignote, popoli selvaggi e incomprensibili. Insomma, tutto quel che ci si può e deve attendere da un libro di questo genere.
Un romanzo dunque realistico? Fedele alla sua massima secondo cui "l’ingegnoso è sempre fantastico e l’autentico immaginario è sempre analitico", Poe si affida ad un classico topos della narrativa avventurosa/misteriosa/esotica, vale a dire la riproduzione di un documento (la "relazione" di Arthur Gordon Pyn di Nantucket, appunto) a sua cura, che, proprio in quanto tale, dovrebbe essere fonte di realtà e di verità, nonostante che lo stesso protagonista-narratore affermi di descrivere "avvenimenti talmente al di là della normale esperienza umana e pertanto al di là dei limiti di ciò che è umanamente possibile credere". Insomma, una narrazione vera presentata dal curatore come "opera di fantasia", ma nonostante ciò ritenuta "avventura realmente vissuta"...
Come avviene spesso in Poe, nel Gordon Pym si ritrova dunque un realismo così esasperato da sconfinare per così dire nel fantastico: si vedano, ad esempio, la logica spinta all’esaperazione e al limite del credibile per riuscire a leggere il messaggio di August nel buio della stiva, oppure il modo in cui nell’isola del selvaggi Pym e Peters riescono a scendere nello strapiombo grazie ad una corda formata da quasi un metro di fazzoletti. Il che ricorda il meccanismo iper-logico mediante il quale Dupin risolverà i suoi "misteri" pochi anni dopo facendo da maestro a Sherlock Holmes.
Un realismo che, contemporaneamente, cede pian piano all’irrealismo e quindi al fantastico puro: e così ecco che i naufraghi del Grampus incontrano un "brigantino ermafrodito" (cioè un brigantino-goletta) dallo scafo tutto nero, accompagnato da un fetore "inconcepibile, infernale, intollerabile, soffocante" causato dal suo carico di cadaveri "nel più ripugnante stato di disfacimento" che altri non è, come si è già detto, che la nave fantasma dell’Olandese Volante e a bordo del quale si riproduce prosaicamente il mito di Prometeo; poi, durante il viaggio della Jane Guy, prima un orso bianco alto quattro metri e mezzo e dal "muso da mastino", quindi la carogna di un animale misterioso: muso da gatto, orecchie da cane, coda da topo, artigli e denti scarlatti, pelame bianco. Infine, ecco l’isola sconosciuta, nei pressi del Polo Sud, ovviamente non segnata sulle carte, dove il bianco non esiste: qui è tutto nero, dagli indigeni che vestono pelli nere di un animale sconosciuto e hanno addirittura i denti neri provando un terrore indicibile di fronte a qualsiasi cosa sia bianca, alle rocce e alle piante, e dove l’acqua dei torrenti sembra una soluzione di gomma arabica, densa, dalla sfumatura violetta e formata da tante vene dai colori diversi.
Ormai siamo in pieno fantastico. Ma non basta. E’ la parte finale del romanzo quella che ci conduce, per dirla alla Pauwels e Bergier del Mattino dei Maghi, nell’Altrove Assoluto: è il viaggio definitivo di Pym, Peters e dell’indigeno Nu-Nu, verso l’ignoto del Polo Sud che ha fatto versare fiumi d’inchiostro agli esegeti delle più diverse tendenze critiche. Che significato ha questo viaggio attraverso un mare sempre più caldo (e non gelido come sarebbe più logico immaginare) verso una cortina di vapori bianco-opaco, sotto un cielo nero da cui piove cenere biancastra? che cosa mai sarà quella enorme shrouded human figure dalla pelle di un perfect whiteness of the snow che si erge di fronte a loro nelle righe conclusive dell’opera?
In genere, i critici ritengono che questo color bianco sia, come per la balena bianca Moby Dick, il colore della morte e in base a ciò si sono lanciati in analisi sul senso della morte nella narrativa di Poe e in quella americana in genere. Ma, ad un esame più sottile e maggiormente approfondito, le cose non stanno proprio così, non sono tanto semplici ed evidenti. Vediamo perhè.
Il viaggio in mare è di per sé un viaggio di iniziazione, quasi un rito di passaggio, soprattutto nell’Ottocento e specie se lo s’intraprende proprio come fa Pym, di nascosto, all’insaputa della famiglia. C’è innanzitutto il desiderio di diventare adulti, un tentativo di affrancamento, e questo vale inconsciamente anche per l’autore: come ha notato Harold Beaver (alla cui edizione critica del Gordon Pym, Penguin 1975, facciamo riferimento per varie informazioni e note) tutti i personaggi del romanzo il cui nome richiama quello del padre adottivo di Edgar, il commerciante John Allan, fanno una bruttissima fine: William Allen sgozzato e Wilson Allen sepolto da una frana. Poi c’è una serie di prove che Pym supera tutte: il buio e la solitudine per vari giorni nella stiva del Grampus; la tempesta e il naufragio; la fame e il cannibalismo; la visione della "nave dei morti", che assomiglia anche a quella di cui parla la mitologia scandinava; quindi i vari incidenti nell’isola di Tsalal con il pericolo incombente di essere uccisi dagli indigeni, o di morire anche qui di fame o di restare seppelliti vivi o di precipitare dalle rocce. Infine, il viaggio verso l’ignoto polare. Sopravvissuto a tutte queste difficoltà, sarebbe strano che Pym si diriga verso qualcosa che simboleggia inequivocabilmente e solo la morte.
E infatti Pym non muore, tanto è vero che ritorna in patria per poter raccontare le proprie straordinarie avventure: si salva, ma non si sa esattamente in che modo poichè, come il curatore (Poe) spiega subito dopo in una sua nota, rimane vittima di una "morte recente, improvvisa e tragica" che gli impedisce di dare alle stampe gli ultimi due o tre capitoli della sua "relazione". Quindi, fatto che molti critici non hanno preso nella dovuta considerazione, muore solo in un momento successivo per cause che Poe lascia avvolte anch’esse nella indeterminatezza. Non sapremo mai come si sia salvato dalla sua ultima avventura e sia potuto rientrare negli Stati Uniti. Ma si è salvato, questo è il punto: la visione finale del romanzo non è dunque una visione di morte, ma conseguente a quella specie di "rito di passaggio", a quel "rito iniziatico" cui si è volontariamente sottoposto imbarcandosi sulla scassata baleniera Grampus. Sicché, la continuazione del romanzo che Jules Verne pubblicò nel 1897 con titolo La Sphinx des Glaces è sicuramente non solo troppo positivista e razionalista, ma anche sostanzialmente sbagliata in quanto fa rinvenire al Polo Sud lo scheletro di Pym da parte di una spedizione guidata dal fratello del comandante del Jane Guy partito alla ricerca dei dispersi, quando noi sappiamo benissimo che Pym è sopravvissuto.
Affermare allora che il bianco è un colore collegabile tout court alla morte sembra essere riduttivo se non errato, almeno nel caso di Poe, come peraltro anche il sottoscritto riteneva venticinque anni fa. Il fatto è che, al pari di ogni simbolo, il suo significato è duplice e bisogna saperlo decrittare.
In effetti, alle origini della cultura occidentale il colore bianco è collegato alla morte; oggi, come ben si sa, è il nero il colore del lutto, mentre questo senso è rimasto al bianco nelle culture orientali. Il bianco è il colore del sudario, dei fantasmi, delle apparizioni spettrali, è il "colore della paura" ("sbiancò per la paura", "gli vennero i capelli bianchi per la paura"), come nota Jacques Cabau (E.A.Poe, Mondadori, 1961): è l’assenza di tutti i colori, come la somma di tutti i colori, caratteristica che lo avvicina al suo opposto, il nero, che dunque fra loro combaciano e allo stesso tempo si oppongono. E’ sintomatico che quasi tutti i popoli antichi abbiano considerato, attribuendo i colori ai quattro punti cardinali, il bianco tipico sia dell’Est che dell’Ovest: brillante a Oriente, dove nasce il sole, dove si manifesta l’alba; opaco a Occidente, dove tramonta il sole, dove comincia la notte. Si tratta, come si vede, di un colore di passaggio e di transizione da uno stato all’altro, dalla nascita alla morte e alla rinascita. Questo è l’elemento fondamentale: il ciclo è senza fine, non c’è soluzione di continuità. Il bianco, candidus, è dunque il colore dei "candidati", di coloro che stanno per mutare condizione: di chi, tra le popolazioni africane, si sottopone ai riti di passaggio per entrare nell’età adulta, o nella Grecia antica ai riti della iniziazione orfica, ma anche dei battezzandi, dei comunicandi e dei nubendi del cristianesimo, insomma di chi sta per accedere ad un nuovo e superiore status sia civile che spirituale. Diventa, quindi, il colore della toga virile nell’antica Roma, dei sacerdoti druidi e poi cattolici, e diventa anche il colore del re quando questi assume una funzione sacerdotale, prima di passare al rosso e al porpora, tipico colore regale e guerriero. Anche in alchimia, l’iter per realizzare la Grande Opera è esattamente questo: nigredo, albedo, rubedo: dal Nero, al Bianco, al Rosso. Il bianco ci indica, allora, un passaggio dalla morte alla rinascita, prima di accedere alla illuminazione finale, solare e regale.
Rileggiamo così con maggiore attenzione le due pagine finali del Gordon Pym: ci accorgiamo allora che in esse si fondono due suggestioni conscie e inconscie. La prima è senza dubbio quella che deriva dalle teorie dell’ex capitano di fanteria John Cleves Symmes (1780-1829) diffuse nel 1818 attraverso un vero e proprio manifesto (iniziava con queste parole: "Dichiaro che la Terra è cava e abitabile all’interno... e che è aperta ai poli") e poi popolarizzare con il romanzo Symzonia pubblicato nel 1820 dal "capitano Adam Seaborn" (evidente pseudonimo - Adamo nato dal mare - dello stesso Symmes) sullo stile dei Viaggi di Gulliver di Swift. Ecco allora che i fenomeni cui Pym assiste dalla canoa avvicinandosi al Polo Sud possono spiegarsi per via naturale con queste teorie: temperature mite, acqua calda e ribollimento della superfice oceanica prodotti da vulcani sottomarini e da gaysers, la corrente che trascina la canoa inesorabilmente verso l’immane foro antartico, le aurore boreali create da questa singolare situazione geografica, e poi i capitoli mancanti che forse avrebbero potuto raccontare il suo viaggio tra le meraviglie interne al globo terrestre e la sua ricomparsa in superfice, evidentemente transitando dall’apertura opposta del Polo Nord, e che comunque Poe ritenne non solo di non descrivere, ma neppure di accennare, lasciando tutto in una enigmatica sospensione, come era tipico della sua narrativa. L’idea che ai due Poli vi fossero delle entrate per le viscere del globo era stata suggerita dalle carte geografiche disegnate secondo la "proiezione di Mercatore": un effetto prospettico, ma che colpì l’immaginazione di Poe il quale, in una nota posta alla fine del suo Manoscritto trovato in una bottiglia, rivela che quando il suo racconto venne pubblicato per la prima volta, egli "non conosceva ancora le carte di Mercatore, nelle qwuali si vede l’oceano precipitarsi, per quattro bocche, nel Golfo Polare, scomparendo nelle viscere della Terra".
Ma c’è un ulteriore aspetto, quello appunto simbolico, da tener presente e che offre un’interpretazione inedita e abbastanza esaustiva del viaggio e dell’enigmatico finale inspiegato. Vediamone i singoli elementi:
- la canoa si avvicina al suo destino attraverso un mare che diventa sempre più lattiginoso: l’elemento liquido, informe, mutevole, instabile è da sempre un simbolo di trasmutazione e passaggio nei miti, nell’esoterismo, nell’alchimia e in psicanalisi; un passaggio dalla non-forma alla forma, dall’indistinto e dall’indeterminato al distinto e determinato, fisso, preciso, se vogliamo anche dal femminile al maschile: l’ "attraversamento delle acque" situate fra terra e cielo significa superare prove per giungere ad uno stato spirituale superiore. Per di più, qui non si tratta di acqua vera e propria, ma di un liquido che via via che si procede acquista la consistenza del latte, il cui colore è comunque sempre bianco: vale a dire un simbolo di vita, di potenzialità attiva, di promesse positive, di realizzazioni future;
- dal cielo cade ininterrottamente una "misteriosa soatanza simile a cenere" in sempre maggiore quantità man mano che la canoa avanza: qualcosa che ricorda la cenere ha di certo un significato di morte e penitenza, soprattutto nella religione cattolica (il "Pulvis es et in pulverem reverteris" del Mercoledì delle Ceneri), ma essa viene prodotta dalla combustione, quindi significa una purificazione attraverso il fuoco, come nei riti di passaggio e nella trasformazione delle ceneri nell’athanor alchemico: anche qui, dunque, una indicazione di rinascita;
- all’orizzonte si profila una "cortina di vapori" di un bianco opaco e grigiastro, che sembrano precipitare dal cielo senza alcun rumore: è chiaro il collegamento con il senso del colore dato all’Ovest dove cala il sole, dove muore la luce: qui è il Sud dove precipitano i vapori e, come dimostra la corrente calda che si rafforza, anche le acque oceaniche. Ma dall’occidens, dal tramonto, dalla morte, si passerà all’oriens, al sorgere, alla rinascita; dal bianco opaco, al "bianco perfetto della neve", quindi brillante, e al rosso. E infatti, attraverso "enormi squarci momentanei" Pym scorge "un caos di forme labili, malcerte": è la nuova realtà in formazione verso cui procede;
- il viaggio in direzione del Polo Sud si svolge dentro "una sinistra tenebra" e pian piano "l’oscurità si [fa] sempre più fitta", mentre Pym naviga su un mare lattescente da cui sorgono "riflessi luminosi" che avvolgono la canoa di "luce irreale": è come se i protagonisti fossero all’interno di una coppa metà bianca e metà nera dove i due colori più che in contrasto sembrano complementari, proprio come lo ying-yang, il simbolo del Tutto senza inizio né fine, dirigendosi verso la loro sorte ineluttabile a velocità paurosa: un viaggio dell’Essere ormai nella sua completezza verso un nuovo destino;
- dal velario che è davanti a lui Pym vede emergere "uccelli giganteschi di un pallido biancore" che emettono l’enigmatico stridio Tekeli-li! proprio come gli indigeni dell’isola di Tsalal: gli uccelli sono dei messaggeri, ovviamente, dal colore pallido e opaco dell’occasum, e stanno per annunciare quale sarà la conclusione del viaggio; potrebbero essere grandi gabbiani e il gabbiano, il caso vuole, viene considerato dagli indiani della Colombia britannica, "proprietario della luce del giorno";
- pochi attimi prima della conclusione della corsa, Pym e Peters si accorgono che Nu-Nu è morto: l’indigeno era caduto sul fondo della canoa non appena aveva toccato un fazzoletto bianco: la nigredo non può sopravvivere una volta giunti all’albedo, è ormai una tappa che ci si deve lasciare alle spalle, l’informità caotica cede il passo alla forma compiuta lungo la via che porta alla Grande Opera;
- alla fine si erge quella "figura umana avvolta in un sudario di proporzioni ben più grandi di ogni altro abitatore della terra", che è stata interpretata di volta in volta come l’immagine della madre amata, del padre non conosciuto, del patrigno odiato, della sposa bambina, addirittura di Gesù Cristo, o invece più prosaicamente come la magnetica "sfinge dei ghiacci" verniana. Intanto, bisogna precisdare che la figura è shrouded più che veiled, cioè non tanto avvolta da un velo ma da un sudario, il lenzuolo dei morti; nel nostro caso però, proseguendo nel ragionamento simbolico sin qui fatto, è una morte che presuppone una resurrezione indicata sia dal luogo in cui la figura misteriosa si manifesta (l’occasum), sia dal suo colore, e il colore della pelle che appare è "del bianco perfetto della neve". Viene inevitabile da dire, allora, che questa "figura umana" altri non sia che una proiezione dell’Io del protagonista: è l’immagine di Arthur Gordon Pym che si trova ormai al di là della cortina di vapori biancastri, che ha superato l’occasum e si appresta a rinascere, che ha già raggiunto uno status spirituale superiore (la maggiore grandezza), che si prepara ad una nuova vita dopo essersi liberato del lenzuolo in cui sono avvolti i cadaveri. E infatti, come è il caso di ripetere ancora, Pym (e Peters con lui) sopravvivono ad una sorte che sembra in apparenza segnata: ciò non vuol dire altro che non sono caduti affatto nel "baratro spalancato per inghiottirli". Perchè? Ma perchè lo ha impedito proprio quella immensa figura umana coperta da un sudario sorta sul loro cammino, come si dice esattamente: l’Io di Pym, ormai trasfigurato, ha impedito la catastrofe e la morte, o meglio: la catastrofe e la morte si sono tramutate in vittoria e resurrezione. Per questo Arthur Gordon Pym può permettersi di raccontare, tramite Edgar Allan Poe, le sue avventure "talmente al di là della esperienza umana e pertanto al di là dei limiti di ciò che è umanamente possibile credere".
Certo, come tutti i critici sottolineano lo scrittore di Boston era inesorabilmente attratto dall’abisso, dalla caduta, dalla vertigine del vuoto, e lo dimostra anche in questo romanzo, là dove Pym, mentre discende lungo il costone roccioso dell’isola, viene travolto dalla sua "immaginazione eccitata" e prova un irresistibile "desiderio di caduta" lasciandosi andare, ma, almeno in questo caso, riesce a superare la prova al punto da darne testimonianza. Quindi, se vogliamo usare questi termini, Pym/Poe supera le varie tappe del suo personalissimo "rito di passaggio", giunge al termine di una personalissima "iniziazione", subisce una "seconda nascita", diventa un uomo diverso, grazie quasi ad una trasmutazione alchemica. Ovviamente, in senso simbolico e almeno nel e grazie al romanzo. Gli elementi ci sono proprio tutti, da come li conosciamo dalle antiche documentazioni rituali e dai vecchi testi dell’ermetismo: le prove della terra, dell’acqua e del fuoco, la morte rituale (in alcuni casi l’iniziando viene proprio rinchiuso in una bara e ricoperto da un sudario), la rinascita a nuova vita; il passaggio, con relative prove da subire e superare, nell’iter alchemico: "Quando sopravviene il Bianco nella materia della Grande Opera, la Vita ha vinto la Morte, il loro Re è resuscitato (...) Allora la Materia ha acquistato un tal grado di fissità che il Fuoco non saprebbe più distruggerla", ricorda A.J.Pernety nel suo Dictionnaire mytho-hermétique (1758).
Che in seguito Pym muoia tragicamente e sul serio a causa di un improvviso "incidente" (vale a dire per cause esterne), questo non interessa e non tocca la situazione precedente. E lo stesso vale per l’altrettanto tragica fine di Poe, dieci anni e poco più dopo la pubblicazione del suo unico romanzo, a Baltimora.