DA WEIMAR ALL’ITALIETTA ODIERNA, di Gianfranco La Grassa

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Antonio Grego
icon11  view post Posted on 21/1/2008, 13:31




http://www.eurasia-rivista.org/cogit_conte...ZNtLXHPJp.shtml


DA WEIMAR ALL’ITALIETTA ODIERNA
di Gianfranco La Grassa






Dal testo:

"Dovrebbe nascere una forza politica, assolutamente diversa, che
ponga all'ordine del giorno una rottura con l'intero sistema dei
sicari (politici) della "filiera" di potere appena considerata; essa
non dovrebbe porsi immediatamente nell'ottica della resa dei conti
con i mandanti di questi sicari politici (sappiamo che si tratta
della GFeID e dei suoi punti riferimento statunitensi, sia politici
che finanziari), conscia del fatto che, quando si tolgono di mezzo
i "servi", anche i "padroni" si indeboliscono e debbono trattare,
abbassando le ali e starnazzando assai di meno. Una simile nuova orga-
nizzazione, necessariamente tesa alla ricerca di collegamenti con i
suoi simili in altri importanti paesi europei, dovrebbe essere
principalmente concentrata sulla "rivoluzione" contro il capitale ame-
ricano. Si tratta di un progetto politico indipendentista, del tutto
incomprensibile per quei rimasugli (e rigurgiti) reazionari che
trattano il capitalismo italiano come parte integrante di un unico
imperialismo mondiale (rappresentato dall'insieme dei paesi afferenti
alla formazione dei funzionari (privati) del capitale).
(...)
Oggi, poi, i sopravvissuti di questa impostazione possono solo fare
danni poiché, con il loro semplicistico criterio di conflitto,
contribuiscono alla creazione di alcuni presupposti favorevoli al
precipitare di una autentica reazione sulle nostre teste. Lasciando
da parte questi ormai decrepiti e inaciditi resti di un'epoca che fu
(finita nella tragedia ma anche nella farsa), resta la prospettiva,
per quanto poco probabile, di una "rivoluzione" contro il capitale
americano. Questo sarebbe il primo passo da compiere (e siamo già in
forte ritardo).
Se ne dovrà parlare con più calma e ponderazione. Tuttavia,
l'iniziativa deve partire da gruppi politici in condensazione che
siano in grado di coinvolgere in un nuovo progetto ("rivoluzionario")
i settori di punta ("di eccellenza") della nuova ondata di
distruzione creatrice, mettendo in mora quelli della passata ondata,
che invece spadroneggiano nei paesi subordinati al capitalismo
americano, favoriti da una struttura finanziaria weimariana (quella
americana dominante si ramifica nei paesi in questione). La crisi
prossima ventura può essere un'occasione di indipendenza, ma senza in-
gannevoli mascherature del tipo della tesi che sostiene il
decoupling. Tranciare la filiera di potere weimariana (il che
significa annientare il sistema politico attuale quale sua
diramazione) non comporta fin da subito il salvataggio dalla crisi;
anzi, in un primo tempo è probabile si verifichino contraccolpi
negativi (economici, ma anche politici di resistenza reazionaria) che
vanno affrontati non certo con la "democrazia elettoralistica",
strumento di perpetuazione del vecchio sistema di potere (subordinato
agli Usa).
(...)
Deve però essere ben chiaro che soltanto
l'organizzazione "rivoluzionaria", sconfiggendo la "grande finanza e
industria decotta" (con la sua subordinazione al centro
predominante), è in grado di ristrutturare il sistema-paese dando la
preminenza ai suddetti settori di eccellenza decisivi, una volta
superata la crisi, al fine di incrementare e produttività e
produzione per supportare la redistribuzione di reddito inizialmente
effettuata.
(...)
l'eventuale organizzazione di "rivoluzionari" contro il capitale
americano non deve essere assillata da preoccupazioni elettorali;
deve agire con decisione frantumando quel groviglio di interessi che
ci opprime e ci consegna alla predominanza altrui e alle sue crisi
devastanti la nostra struttura, il nostro stesso convivere, sociale.
Qual è uno degli elementi di debolezza di una simile possibile via di
uscita dalla rovina pressoché certa cui andiamo incontro rapidamente?
Manca qualsiasi sostegno da parte delle dirigenze di quelle imprese
(poche per di più) che rappresentano, o potrebbero rappresentare, i
nostri settori di punta. Queste dirigenze non hanno nulla a che
vedere con la stoffa di un, mettiamo, Enrico Mattei (oggi, ne sono
convinto, un dirigente di questo tipo si schiererebbe per un
progetto "rivoluzionario" del genere accennato); abbiamo gruppi
manageriali divisi al loro interno, privi di un centro unico di
direzione strategica, avvolti in compromessi con i terminali politici
della già nominata filiera di potere, i quali resistono sulla scena
per eliminare ogni e qualsiasi possibilità di utilizzo delle nostre
punte industriali avanzate contro la subordinazione e per una
indipendenza, che comunque esigerebbe ormai un collegamento con
rilevanti schieramenti analoghi in alcuni altri paesi europei. Manca
una forza in grado di fare una vera politica estera di affrancamento
dalla subordinazione agli Stati Uniti, di collegamento con le
crescenti "potenze a est", senza però nuove subalternità; semplice-
mente dimostrando di possedere abilità manovriera nella nuova
situazione di avanzante policentrismo.
Siamo indietro, terribilmente indietro, ma non ne usciremo con le
sciocchezza della rivoluzione totale, verso la nuova società. Quelli
che fingono di volerla sono ormai dei puri reazionari. Manca quindi
perfino la mera potenzialità di un'autentica rivoluzione contro il
capitale. Affidarsi puramente e semplicemente a quella dentro il
capitale, è oggi del tutto ambiguo; potremmo per altra via ritrovarci
una "dittatura" (quella detta all'olio di vaselina) del tutto
dipendente dai gruppi dominanti dello stesso paese, cui siamo già
subordinati "democraticamente" (gli Usa). L'unica via di uscita è
la "rivoluzione" contro il capitale americano; cioè una lotta che in
qualche modo ha dei tratti indipendentistici, di autonomia che si
potrebbe dire nazionale se non fosse che esige, per riuscire nei suoi
intenti, la ricerca di legami – politici, economici, culturali – con
forze analoghe in altri paesi (europei ovviamente)."
 
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