La Città verde
Panorama Tripoli
Sospesa fra due mari, quello delle acque del Mare Nostrum a nord e quello delle pietraie e delle infuocate dune sahariane a sud,
Tripoli è una città araba anomala: un porto di mare sottotono, una metropoli inspiegabilmente silenziosa e ordinata. I romani, nelle loro cartine, la indicavano con “Oea” e, subito sotto, disegnavano una vasta area vuota, dal nome evocativo:
hic sunt leones. Ora il nome è Tarablus e ospita la stragrande maggioranza del popolo libico. Qualche anno fà si è celebrato il trentennale della liberazione del paese dalla monarchia di Idris: la città si è dipinta di verde e una moltitudine impressionante è scesa in strada per raggiungere la Piazza Verde, il centro della capitale, a due passi dal mare. Arrivarci di notte (come capitava quando, per via dell’embargo aereo, si doveva entrare via terra dalla Tunisia o dall’Egitto) è un esperienza allucinante: lampioni da miliardi di watt illuminano una piazza enorme, vuota, facendone brillare l’asfalto verde, magico e sinistro. Su un lato l’impressionante mole dell’Assadj al-Hamra (il castello rosso). Dietro, invisibile, il mare blu e le luci del porto. Al centro della piazza una fontana che, con la sua eleganza decadente, stona in questa atmosfera irreale. Chissà che effetto tragicomico faceva la statua del Duce, con la sciabola turca levata al cielo, che per qualche anno la retorica coloniale ha imposto agli abitanti proprio qui, accanto alla fontana.
Sulla baia si apre una piazza dominata da un singolare monumento formato da enormi sezioni di tubi di cemento artisticamente dipinti e sovrapposti. Provengono dal “Grande fiume dell’Uomo”, il faraonico progetto, unico al mondo, di portare acqua fossile dal deserto alle assetate città della costa. Il castello rosso ora ospita il formidabile museo della Jamahiriya : grazie agli sforzi dell’UNESCO si possono passare ore e ore in un mare impressionante di reperti archeologici e storici eccezionali. Un percorso cronologico che si snoda attraverso i secoli: dall’occupazione romana a quella araba, fino alla storia più recente: statuette del Colonnello Gheddafi e campioni di petrolio. E poi mosaici, pitture rupestri, selle tuareg e qualche bella fotografia aerea delle zone desertiche del paese. Del periodo romano in città rimane solo l’arco di Marco Aurelio, sul tratto della baia che costeggia la città vecchia (ex Lungomare Principe di Piemonte, ora shari’a al-Fatah).
Storia singolare, quella dell’arco: da sempre considerato un ingombrante intralcio è stato interrato e soffocato, poi offeso dal passaggio di carri e macchine proprio sotto i suoi fregi. Infine, trasformato addirittura in sala di proiezioni: un frequentatissimo cinema ante-litteram.
Per ammirare vestigia dell’impero bisogna recarsi a Sabratha o a Leptis Magna, città natale dell’imperatore Settimio Severo. Entrambe sono raggiungibili e visitabili in una giornata.
Moschee e mercati sono l’attrazione irresistibile per qualsiasi occidentale in una città araba.
La più interessante e anomala delle moschee è Gurgi: iper-decorata con maioliche e motivi geometrici che invadono tutte le superfici, dal pavimento al portale d’ingresso, contrasta con l’assoluta e spoglia semplicità degli altri edifici di culto di Tripoli. Un’altra moschea particolare è quella che occupa gli spazi della ex-cattedrale del Sacro Cuore di Gesù. Il campanile è ora un minareto e la mezzaluna che lo sovrasta è una beffarda vendetta ad analoghe umiliazioni religiose subite dagli arabi (una per tutte: Cordoba in Andalusia).
Al suk di Tripoli si accede entrando nella medina (città vecchia) dalla Piazza Verde. Molti dei negozi si stanno turisticizzando ad un ritmo impressionante e conviene, dunque, allontanarsi un po’ per visitare i mercati della zona ovest della città. Qui si respira ancora l’atmosfera genuinamente confusa della vecchia Tripoli: kabab, caffè e narghilè con le loro fumose essenza alla mela e alla vaniglia. Tassisiti non petulanti: qualcuno che offre un passaggio in camion per il Sinai e qualcun’altro che ne cerca uno per il Niger. E poi venditori di pane e chai (tè) ad ogni angolo, magliette delle squadre di calcio italiane e sigarette.
Per vedere la Tripoli più occidentale fate una visita al quartiere di Gargaresh, all’estremità sud della città: boutique, fast food, ristoranti e macchinoni coreani e giapponesi. Lungo le mura settentrionali il mercato dei disperati: cianfrusaglie senza valore tra le quali, con molta pazienza e fortuna, si può trovare una pregiata edizione del corano.
Se la visita vi ha stancato, prima di una passeggiata al tramonto sul lungomare, dove una volta erano il Real Teatro Miramare e le residenze coloniali, concedetevi un paio d’ore di massaggi e lavaggi profumati all’hammam “Draghut”: una piccola porticina vi immette, dopo aver pagato qualche dinaro, in un ambiente fumoso, dai muri scrostati ma ricco di umanità e silenzio; si trova accanto alla moschea omonima (Draghut), a metà strada tra l'arco di Marco Aurelio e il Castello.
E poi, la sera, la luna di Tripoli, come l’ha descritta lo scrittore Cesare Brandi, arrivato sul “bel suol d’amore” mezzo secolo fa: “Per la prima volta, stasera, mi ha colpito la luna d’Africa. Era quasi a perpendicolo. Il mare riceveva non so che incidenza fatale di raggi, che d’improvviso fu chiaro e trasparente e illuminato da sotto. Questo cielo ravvicinato diveniva metallo, era pietra dura, era paurosamente osseo, volta cranica: lì dentro mi sentivo come il mio cervello”.
A proposito di scrittori: la libreria Dar al-Fergiani, sulla Shari’a 1st september vicino agli uffici della Libyan Arab Airlines, è una miniera di rarità in italiano e in inglese: vecchie mappe e litografie, nonché l’immancabile Libro Verde di Gheddafi, l’artefice di una trasformazione coraggiosa per il paese. Ed è proprio dalle parole del colonnello sulle città moderne che si capisce perché Tripoli rimarrà per sempre un’anomalia nel panorama metropolitano dell’Africa mediterranea: “La vita nella città non è altro che una esistenza biologicamente irrilevante. Si vive e si muore senza significato. Il deserto mi dà la possibilità di pensare”.
di Federico Geremei La Città labirinto
Panorama Ghadamesh
Un’oasi al confine tra Libia, Algeria e Tunisia, a due passi dal grande Erg, ossia il mare di dune occidentale.
Ghadamesh, l’antica Cydamus, è da sempre un punto di incontro e di scambio: un’isola magica, misteriosa, fiera e decadente. L’UNESCO ha dichiarato questo villaggio carovaniero dal mitico passato patrimonio dell’umanità. Acqua e palme sono gli ingredienti immancabili di ogni oasi e Gadames non fa certo eccezione.
La città si sviluppa intorno all’ain-al-faras, la “fonte della vacca”: prende il nome dall’antica leggenda secondo cui fu una giumenta ad indicare ad un gruppo di berberi una piccola vena acquifera sulla sabbia. Intorno ad essa si è poi sviluppata l’oasi leggendaria di Gadames. Ma la magia di questa città del deserto è tra le case della città vecchia, cui si accede da una delle sette porte: come per Alice che inseguiva il suo gatto, queste immettono in un mondo magico, dominato dalla sabbia gialla sul terreno, dai drammatici chiaroscuri delle case bianche nella penombra e dal blu brillante che irrompe prepotente dalle rare aperture squadrate sulle volte dei vicoli. Gadames è un vero labirinto. Difficile stabilire a priori dove andare e cosa vedere: ci si lascia guidare dai sensi, da un bambino che grida all’improvviso o dai sussurri dietro la porta d’ingresso di qualche scuola coranica.
Le moschee a Gadames sono numerose e presentano tracce bizantine più marcate che altrove. I pochi minareti accessibili costituiscono un ottimo punto di osservazione per riemergere e dominare il paesaggio dall’alto: ci si accorge allora dell’unicità e della magia di Gadames. Ogni tanto il ritmo irregolare e tortuoso dei vicoli s’interrompe all’improvviso in piccole piazze, come accade a Genova o Venezia. Di particolare suggestione è la usaiet al-tita, la piazza del gelso.
Negli ultimi cinquant’anni Gadames è cambiata moltissimo: prima la massiccia emigrazione verso Nord poi la costruzione della città nuova, adiacente a quella antica. Se da un lato ne ha impedito lo stravolgimento urbanistico, preservandola intatta, dall’altro ne ha determinato lo spopolamento quasi totale. Gadames è facilmente raggiungibile da Tripoli: si trova da secoli sulle rotte di chi vuole scendere nel Sahara occidentale dal Mediterraneo. Arrivarci di notte è straniante: una moschea enorme rischiara la notte con le sue intensissime luci al neon, come accade in molte città dei deserti libici, egiziani e sudanesi.
Gli italiani arrivati da queste parti ottant’anni fa hanno fatto tutto sommato pochi danni: hanno edificato un forte che ora ospita un piccolo museo, eseguito qualche scavo archeologico e spostato l’accento di Gadames sulla e finale. Agli inizi di ottobre la città si trasforma in occasione delle feste tuareg: danze, canti e gare di cammelli. Una kermesse cui partecipa tutta la comunità, dando vita ad un evento formidabile e ricco di antiche suggestioni.
Un’altra festa si svolge due mesi più tardi a Ghat, avamposto tuareg più a Sud, vicino a Djanet, ma sempre in territorio libico, nel Fezzan: la si raggiunge partendo da Gadames e, attraverso lo spettacolare erg Awbari, passando per Germa, l’antica capitale dei Garamanti.
Infine, quando il sole sta per tramontare ci si sposta a pochi chilometri dalla città, per un assaggio dello spettacolare tramonto sahariano: il sole scende rapidamente dietro le dune, dove l’orizzonte ignora i confini politici e lascia spazio alla fredda notte di Gadames.
Edited by falak - 11/10/2008, 21:20