Ciao a tutti... perdonate l'intrusione ma la discussione mi attira...
Trovo che per analizzare la solitudine nel suo significato sia prima necessario individuare di quale solitudine stiamo parlando...
Insomma credo che ci sia differenza tra la solitudine di fatto (il trovarsi cioè fisicamente soli, tanto nella stanza di un condominio di una città quanto in un bosco selvaggio e privo di segni di presenza umana) e quella che invece si avverte a livello esistenziale...
La prima, a meno di atti coercitivi esterni (vale a dire trovarsi in una cella di isolamento di un carcere o di un ospedale psichiatrico) e di deficit fisici (immobilità o malattia in genere), la vedo sempre e comunque come una scelta personale.......
In ogni momento possiamo contrastare la situazione di solitudine fisica recandoci in posti frequentati quali bar, chiese o simili... insomma aggregandoci ai nostri simili.
La seconda invece è di tipo ben diverso e, come è già stato giustamente osservato, è capace di presentarsi a prescindere dalla presenza di qualcuno nella nostra vita...
Quando la si percepisce è qualcosa di diverso, di ancestrale che pianta le sue radici in qualcosa che non è la quotidianità.
Più che solitudine chiamerei tutto questo con un senso di unicità...
Si è abituati ormai a dare per scontato che per diritto di nascita tutti gli uomini sono uguali...
Ma questa definizione (filosofica si, ma anche giuridica) si limita a vedere gli aspetti pratici, sociali...
In senso più ampio la si dovrebbe completare dicendo che "Gli uomini sono tutti uguali perchè sono tutti diversi".
Vale a dire, in altre parole, che quello che ci accomuna è che siamo tutti una unica ed irripetibile espressione dell'umana essenza (mi limito a dire umana essenza per non addentrarmi in discorsi teologici sull'esistenza o meno di un ordine determinato)..
Ora come può reagire un essere umano che viene a contatto con questa idea di unicità e quindi, più in profondo, di incomunicabilità?
E' questo probabilmente il perno attorno a cui ruotiamo nel nostro fuggire o cercare la solitudine...
Come i latini sarei portato a dire che la virtù si trova esattamente nel mezzo perchè, come anche voi avete detto prima, c'è da imparare tanto nell'isolarsi quanto nel mischiarsi agli altri...
Ma il punto a cui giungo è che per fortuna o purtroppo non siamo orologi... o computer...
Vale a dire che il presentarsi di certe idee, pensieri e flussi di svalvoli è dovuto in buona parte all'attività inconscia della nostra psiche.
Suddetta attività inconscia è qualcosa, appunto, di non conscio (ma va?) e quindi NON controllabile dalla nostra volontà...
Ma allora è per questo che allora si soffre? Per il sentirsi unici, irripetibili ed incomunicabili e per provare questo anche in mezzo ai nostri familiari ed amici + intimi...
Fronteggiare ed accettare un'idea di questo calibro richiede maturità e saggezza: due parole che non vogliono dire nulla se non quello che ognuno di noi gli attribuisce...
Credo che la solitudine/unicità sia una di quelle figure archetipiche (mitologiche) che, da quando l'uomo esiste, si è trovato ad affrontare...
Un po' come il rapporto figlio/genitori o il percepire il significato della morte.
Non ci sono reazioni che si possono definire patologiche o squilibrate... c'è solo la pura umile risposta che ogni essere vivente sceglie di darsi.
Credo che solo l'interrogarsi a fondo su cosa vogliamo da noi stessi e dalla nostra esistenza e solo il riuscire a darci una risposta coerente possano aiutare ognuno a trovare il proprio equilibrio e quindi, a smettere di soffrire...
Insomma: da migliaia di anni ci sono eremiti da una parte e folle dall'altra.
Il problema sorge quando un eremita non sa di esserlo e si trova nella folla...
O quando uno ama la folla al punto da credere di doverne fuggire...
spero di nn aver scritto troppo ma era un po' che cercavo l'occasione di poter scaricare dal cervello un po' di idee su questo argomento... (a proposito di incomunicabilità
)