piccola osservaziome a margine

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  1. Tywin Lannister
     
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    Mi permetto di osservare, senza in alcun modo voler fare polemica, che il secondo tema, definito "di 4 facciate" contiene 2322 parole, ossia equivale, se la grafia è molto piccola, almeno ad 8 facciate scritte a mano. Il primo tema, quello valutato con 16, ha una dimensione pari ad almeno 15 facciate scritte a mano.
    Insomma, ciò che voglio dire è che la redazione dei temi a computer porta alla realizzazione di elaborati "poco realistici" e ben difficilmente ottenibili in sede concorsuale. Provate a leggere qualche elaborato che è passato nei precedenti concorsi (anche con voti elevati) e noterete la notevole differenza. A mio avviso bisognerebbe tenere conto di queste considerazioni nelle correzioni.

    [QUOTE=schopena,7/1/2014, 20:33 ?t=66965714&st=30#entry549599109]
    Tema migliore Novembre, traccia due: "L'autotutela nel diritto civile: l'eccezione di inadempimento e il suo onere probatorio".

    Considerazioni generali sui temi corretti: quasi tutte sufficienze. Bravi!



    Tema migliore:
    Il tema dell’autotutela in diritto civile è stato oggetto di una grandissima attenzione da parte sia della dottrina che della giurisprudenza ed ha visto la contrapposizione tra chi ne nega la sussistenza e chi, invece, l’ammette.
    Il primo degli orientamenti citati ritiene che, nel nostro ordinamento, in linea generale, non è contemplata la possibilità di farsi giustizia da sé in quanto solo allo Stato è attribuito, in via esclusiva, il compito di amministrare la giustizia. Si afferma che tale principio trovi il proprio fondamento, anche a livello costituzionale, ex art. 101 e 102 Cost.
    La sfiducia nei confronti dell’autotutela deriva probabilmente da una visione della stessa quale tecnica giuridica del “diritto primitivo” e come manifestazione di vendetta che, non solo non si deve ammettere, ma si deve proibire e sanzionare, anche penalmente. La condotta di chi si fa giustizia da sé può, infatti, addirittura assumere i connotati dell’illecito penale: si fa riferimento al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose e sulle persone (artt. 392 e 393 c.p.).
    Il secondo orientamento, invece, ammette il ricorso all’autotutela ma all’interno dello stesso si deve distinguere tra chi vede la stessa come regola di carattere generale e chi, opinione prevalente, guarda ad essa come una ipotesi eccezionale, la cui attivazione è condizionata all’esistenza di una fattispecie disciplinata da apposita norma di legge.
    La dottrina minoritaria ritiene che l’argomento che fa leva sulle norme su richiamate non sia insuperabile. Gli artt. 392 e 393 c.p., infatti, riguardano solo ipotesi di violenza su cose o persone, e quindi non puniscono in via generale l’esercizio delle proprie ragioni ma la violenza sulle cose o la violenza o minaccia sulle persone al fine di affermare arbitrariamente le proprie ragioni. Secondo tale orientamento, non solo le norme predette si riferiscono a fattispecie diverse ma l’esercizio delle proprie ragioni deve essere arbitrario. Ritengono, pertanto, in conclusione che gli artt. 392 e 393 c.p. non introducano un divieto generale di autotutela privata ma anzi, a contrario, tale autotutela riconoscono in via generale laddove vietano l’esercizio delle proprie ragioni solo nei casi in cui esso sia arbitrario e violento.
    La dottrina maggioritaria ritiene, invece, che nonostante la mancanza nel nostro ordinamento di una disposizione generale, come è presente in quello tedesco, vi sono comunque alcune ipotesi in cui, tenuto conto di determinate condizioni, risulta eccezionalmente consentito ad un soggetto agire proteggendo la propria sfera giuridica minacciata o lesa da un comportamento altrui: si tratta di ipotesi tassativamente previste dalla legge, dunque insuscettibili di interpretazione analogica.
    In dottrina non c’è, però, una visione univoca circa i casi rientranti tra le ipotesi di autotutela tanto che, secondo un autorevole studioso, per esempio, non ne farebbe parte la confessione stragiudiziale, l’arbitrato, ne’ tantomeno lo stato di necessità.
    Nonostante le forti discussioni in argomento, si è giunti ad una definizione il più possibile condivisa di autotutela in base a cui essa consiste nel potere generale di difendere direttamente il proprio interesse legalmente riconosciuto e protetto, mantenendo inalterata la situazione esistente e consolidata ovvero ripristinando, nei casi previsti dalla legge, quella anteriore alla costituzione di un determinato rapporto obbligatorio.
    Le più varie definizioni e classificazioni del fenomeno dell’autotutela paiono, in ogni caso, convergere sull’esatta considerazione secondo cui essa è espressione dei principi di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio o nell’esecuzione del contratto, finalizzata, principalmente ed empiricamente, ad evitare una inaccettabile iniquità determinata dal dovere di esecuzione a fronte di un atteggiamento in certi casi addirittura programmaticamente inadempiente della controparte. E’, dunque, da respingere ogni deriva ideologica che connota negativamente il fenomeno dell’autotutela in diritto civile, al contrario di quanto accade in amministrativo, dove è invece accolta con grande favore.
    Per quanto concerne le classificazioni, l’autotutela in diritto civile può assumere natura “unilaterale” o “consensuale”.
    In quest’ultimo caso, nell’ambito di un precedente accordo, le parti convengono di istituire meccanismi predeterminati di protezione di determinate posizioni soggettive, idonei ad essere attivati senza che si palesi indispensabile il ricorso all’autorità giudiziaria.
    E’ possibile distinguere l’autotutela consensuale in base alle funzioni svolte: finalità ricognitiva, satisfattiva e cautelativa.
    Esempi della prima tra le citate funzioni sono: l’arbitrato, il negozio di accertamento, la transazione, la confessione stragiudiziale e l’inventario. Rientrano, invece, nell’ambito dell’autotutela consensuale con funzione satisfattiva: la cessione dei beni ai creditori, l’anticresi, il divieto di patto commissorio. Sono, infine, esempi dell’autotutela consensuale con funzione cautelare: le figure di sequestro convenzionale e garanzie reali (pegno e ipoteca).
    Per quanto concerne l’ autotutela unilaterale, si tratta di quelle ipotesi, eccezionalmente consentite, nelle quali è possibile per il soggetto titolare del diritto di porre in essere autonomamente una condotta idonea a proteggere la propria posizione giuridica, pur senza l’intervento di alcuno. Si può, a tal proposito, rammentare, oltre ai casi piuttosto evidenti di legittima difesa e stato di necessità, quelli di eccezione di inadempimento, la vendita e la compera per conto di chi spetta, la possibilità di alienare le quote del socio moroso, il diritto riservato al mandatario dall’art. 1721 c.c., le numerose norme attributive del diritto di ritenzione, il diritto di sciopero.
    L’autotutela unilaterale può essere ulteriormente distinta a seconda del carattere “attivo” o “passivo” che la contraddistingue.
    Nel primo caso, l’autotutela ha, per contenuto, una condotta positiva e, per risultato, un mutamento protettivo dell’ attuale stato di fatto.
    L’autotutela unilaterale attiva viene anche distinta in preventiva e reattiva, rientrando nel primo ambito, per esempio, la chiusura del fondo, l’accesso al fondo altrui e lo stato di necessità mentre, nel secondo, la legittima difesa, l’azione surrogatoria, la diffida ad adempiere e l’esecuzione coattiva per inadempimento del compratore e del venditore.
    L’autotutela unilaterale passiva, invece, ha, per contenuto, una omissione e, per risultato, il mantenimento dello stato di fatto esistente contro l’altrui pretesa di mutarlo. Vi rientrano il diritto di ritenzione, l’eccezione di inadempimento, l’eccezione di mutamento delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente e la facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto. Ok!! Bravo/a!!
    Nell’ambito dell’autotutela in diritto civile, assume una particolare rilevanza l’eccezione di inadempimento.
    Il diritto romano non conobbe tale figura generale ma ravvisò l’operatività del rimedio con riguardo a specifiche ipotesi di inadempimento inerenti la vendita. In un passo di Ulpiano è chiaramente affermato che il venditore può trattenere la cosa “quasi come un pegno” fino a quando il debitore non abbia pagato il prezzo.
    Per quanto ampia potesse essere l’operatività del rimedio, la formulazione del principio in termini generali ebbe luogo solo nel diritto intermedio, ad opera dei Postglossatori. L’espressione latina exceptio non adimplenti contractus, ancora oggi usuale, compare nel XVI secolo, in una sentenza del parlamento di Grenoble.
    Neppure il codice francese enunciò il principio generale dell’eccezione di inadempimento, pur se era ormai di comune applicazione. Solo in tema di vendita fu sancito che il venditore non è tenuto alla consegna della cosa se il compratore non ha pagato il prezzo (art. 1612). In termini analoghi si espresse il nostro codice civile del 1865 (art. 1469 comma 1). Spettava alla dottrina e alla giurisprudenza il compito di riconoscere in tali formule l’attribuzione di una eccezione in favore del venditore e l’espressione di un principio applicabile a tutti i contratti sinallagmatici.
    Il codice del 1942 prevede espressamente all’art. 1460 c.c. l’eccezione di inadempimento.
    In particolare, nei contratti a prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non si offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. L’ultimo comma è poi teso ad evitare possibili abusi laddove prevede che tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede.
    La difesa mediante il ricorso all’eccezione di inadempimento avviene attraverso un comportamento negativo e da ciò deriva la sua collocazione nell’ambito dell’autotutela c.d. passiva, consistente nel rifiuto di adempiere la propria obbligazione. Si tratta, inoltre, di un comportamento negativo che prescinde da un preventivo consenso o comportamento della parte o di un terzo o da una preventiva autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, circostanza che ne afferma la collocazione nell’ambito dell’autotutela unilaterale.
    L’eccezione di inadempimento è, pertanto, un potere di autotutela che ha l’effetto di legittimare la sospensione dell’esecuzione della prestazione da parte del contraente non inadempiente fino a quando l’altro contraente non adempia la sua obbligazione.
    Si parla anche di eccezione dilatoria in quanto non è diretta a contestare definitivamente la pretesa dell’attore che potrebbe riproporre nuova domanda, adempiendo o offrendo di adempiere la prestazione da esso dovuta. Alcuni ritengono sia una potestà, con l’intenzione di limitarla al piano processuale in considerazione del generale divieto di autotutela. Alcuni hanno avvicinato l’eccezione al diritto di ritenzione, considerando la prima una sottocategoria della seconda. Secondo diversi autori si tratta, invece, di rimedi nettamente diversi, essendo quest’ultima una garanzia su un bene che il creditore ha l’obbligo di restituire.
    I presupposti necessari affinché possa operare l’istituto sono due: la corrispettività della prestazione e l’inadempimento o la mancata offerta della controprestazione.
    In merito al primo presupposto, numerosi sono stati i criteri adottati nel corso degli ultimi anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Alcuni hanno adottato dei criteri di carattere prettamente formali, che inducono a ravvisare la sussistenza della corrispettività solo in presenza di contratti a prestazioni corrispettive. Altra parte di dottrina si è fatta portatrice di soluzioni di carattere più estensivo, che portano ad ammettere l’applicabilità dell’eccezione anche in contesti in cui non si può strettamente parlare di sussistenza della corrispettività tra le prestazioni. Proprio i fautori di orientamento hanno fatto ricorso al concetto di interdipendenza al fine di ampliare l’ambito di applicazione dell’eccezione. Secondo parte della dottrina, può essere sollevata tale eccezione anche nei contratti plurilaterali con comunione di scopo a fronte dell’inadempimento di una prestazione che, secondo le circostanze, debba considerarsi essenziale. In tema di contratti associativi, la giurisprudenza di legittimità è sostanzialmente conforme nel ritenere improponibile l’eccezione di inadempimento nei contratti plurilaterali, come ad esempio può essere il contratto di società in quanto l’eccezione di inadempimento è finalizzata alla tutela degli interessi contrapposti tra le parti.
    La dottrina si è anche interrogata in ordine alla proponibilità dell’eccezione di inadempimento nell’ambito dei contratti bilaterali imperfetti, come il mandato o il deposito. Si tratta di tipologie contrattuali che, pur presentando un contenuto ed una struttura bilaterali, sono altresì caratterizzati da alcuni elementi di particolarità che possono incidere sul carattere sinallagmatico. La difficoltà sta nell’immaginare o prospettarsi casi nei quali l’inadempimento del mutuante o del comodante sia in grado di giustificare l’opponibilità dell’eccezione ex art. 1460 c.c. da parte del mutuatario o del comodatario. Parte della dottrina ritiene che, anche se a titolo gratuito, può rilevarsi l’eccezione di cui si discorre quando l’obbligato principale abbia diritto alla corresponsione dei mezzi necessari per l’esecuzione del contratto e degli impegni connessi a tale esecuzione. Tale orientamento si basa sulla ratio del rimedio che è di prevenire una situazione di squilibrio economico a danno di una parte a causa dell’inadempimento dell’altra.
    Si mette, inoltre, in evidenza che non impedisce il ricorso all’eccezione, l’accessorietà dell’obbligazione inadempiuta purché questa abbia una importanza rilevante nell’economia dell’affare.
    Parte della dottrina ritiene, altresì, che l’eccezione è opponibile anche quando le contrapposte obbligazioni hanno titolo in contratti diversi ma collegati.
    Anche la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere applicabile l’eccezione in oggetto ai contratti collegati che, pur distinti tra loro, sono collegati in quanto preordinati alla realizzazione di un unico interesse e si inseriscono nell’ambito di una unitaria operazione economica.
    Ulteriore presupposto è la mancata offerta della controprestazione o che controparte sia inadempiente.
    Si premette che l’esercizio del rimedio prescinde dalla responsabilità della controparte in quanto l’interesse della parte a non eseguire la prestazione senza ricevere la controprestazione è ugualmente meritevole di tutela pur se il mancato adempimento della controprestazione dipenda da causa non imputabile.
    L’inadempimento della controparte implica che la sua prestazione sia attualmente dovuta, che cioè la controparte non abbia adempiuto alla sua scadenza del termine o non adempia a seguito delle richieste del creditore.
    La riserva del codice di cui al I comma dell’art. 1460 c.c. va intesa nel senso che l’eccezione è inopponibile alla controparte se la sua prestazione non sia ancora esigibile.
    Nei contratti di esecuzione continuata o periodica, ciascuna parte può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione se l’altra parte non esegue tutte le singole prestazioni già anteriormente scadute in quanto la pluralità delle prestazioni non esclude l’unitarietà dell’obbligazione.
    Nei contratti a prestazioni corrispettive, la contestualità degli adempimenti costituisce la regola ma quando si tratta di prestazioni che richiedono un certo tempo di esecuzione, è normale che le parti o gli usi prevedano la corresponsione di anticipi del corrispettivo. Gli anticipi che devono essere corrisposti nel corso della prestazione o nello svolgimento della stessa possono essere sospesi se la controparte non ha iniziato l’attività preparatoria o esecutiva o non ne rispetta i tempi. A sua volta, il mancato versamento degli anticipi legittima la controparte a sospendere la propria attività.
    La parte che si avvale dell’eccezione di inadempimento si rifiuta di eseguire una prestazione attualmente dovuta, ponendosi in una situazione di inadempimento che però è giustificato in quanto imputabile al creditore, non perdendo quindi diritto alla controprestazione.
    Tale eccezione consiste in uno strumento di carattere autonomo in quanto si tratta di un potere che la parte può esercitare, autonomamente, al fine di tutelarsi di fronte all’inadempimento di controparte, indipendentemente dal ricorso ad altri rimedi. Non interferisce, per esempio, con il rimedio della risoluzione del contratto che l’eccipiente può comunque esercitare se ne ricorrono le condizioni. In quanto legittima reazione all’inadempimento di controparte, l’eccezione vale a contrastare le azioni di adempimento, di esecuzione in forma specifica, di risoluzione del contratto e in genere tutte le azioni esercitate contro l’eccipiente sul presupposto del suo inadempimento.
    Da quanto sopra, emerge che la funzione dell’eccezione di inadempimento è, quindi, quella di garantire l’eguaglianza tra le posizioni delle parti nella fase dell’esecuzione del contratto. Questa funzione è implicitamente riconosciuta dalla dottrina che fa richiamo alla buona fede e all’equità o che vede senz’altro nell’eccezione l’espressione del principio sinallagmatico.
    Una dottrina ha ravvisato nell’eccezione una funzione strumentale rispetto alla risoluzione del contratto: l’eccezione garantirebbe la fruttuosità della risoluzione del contratto, evitando che il creditore esegua una prestazione di cui potrebbe essere incerto il recupero. Questa dottrina dà peraltro eccessivo rilievo ad una vicenda ulteriore che è solo eventuale e che si distingue nettamente dall’eccezione di inadempimento: è una vicenda estintiva del contratto mentre l’eccezione ne sospende l’esecuzione lasciando aperta la possibilità che il debitore adempia esattamente la sua obbligazione.
    Altra dottrina ravvisa nell’eccezione di inadempimento una funzione strumentale rispetto all’adempimento: l’eccezione esprimerebbe la pretesa del creditore all’esatta esecuzione della prestazione. Nelle ipotesi di inesatto adempimento l’eccezione sarebbe volta ad ottenere la sostituzione o la riparazione del bene e sarebbe, quindi ammissibile solo nei limiti in cui il creditore possa far valere tali rimedi, ossia entro un ambito notevolmente ridotto, posto che in generale il diritto del creditore alla sostituzione della prestazione non è ammesso nel nostro ordinamento e il diritto di riparazione è largamente contestato.
    L’eccezione di inadempimento in realtà, come non è strumentale alla risoluzione del contratto, così non lo è neppure rispetto ad altri rimedi contro l’inadempimento. Con l’esercizio dell’eccezione, il creditore si limita a sospendere la propria prestazione senza esercitare o vincolarsi alla scelta di altri rimedi. Proprio in quando non implica l’esercizio di altri rimedi definitivi contro l’inadempimento, consente che il contratto abbia una esecuzione volontaria che prescinde dal diritto del creditore al compimento di determinati atti di regolarizzazione della prestazione. A seguito dell’eccezione il debitore potrà provvedere a sostituire la cosa o a ripararla o a rimuovere comunque la situazione di inadempimento. Si conferma pertanto che l’eccezione di inadempimento è un rimedio autonomo, il cui esperimento non può essere subordinato alla presenza dei presupposti necessari per l’esercizio di altri rimedi.
    Altra questione che ha suscitato riflessioni è relativa alla necessità o meno della presenza del requisito della gravità dell’inadempimento. Dottrina maggioritaria ha sostenuto che il creditore può valersi dell’eccezione nel caso di breve ritardo e nel caso di inesattezza quantitativa o qualitativa della prestazione pur se l’inesattezza non sia tale da giustificare la risoluzione del contratto.
    La gravità dell’inadempimento è, infatti, un presupposto della risoluzione e trova giustificazione nella radicalità e definitività di tale rimedio, mente l’eccezione di inadempimento non estingue il contratto ma ne sospende l’esecuzione, permettendo al debitore di eliminare l’inesattezza della prestazione che, per quanto di lieve entità, lo esporrebbe comunque al risarcimento del danno.
    In giurisprudenza si è, però, affermato che la mancanza di gravità dell’inadempimento renderebbe l’eccezione contraria a buona fede. Parte della dottrina contrasta tale affermazione in quanto si ritiene non accettabile in termini assoluti poiché si verrebbe in tal modo a limitare la funzione del rimedio. Si precisa che è, tuttavia, possibile che la non gravità dell’inadempimento costituisca una delle circostanze che integrano la contrarietà a buona fede.
    Il codice esclude espressamente che il creditore possa rifiutarsi di eseguire la sua prestazione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. Si fa riferimento alla buona fede in senso oggettivo o correttezza, intesa come canone di condotta corrispondente a regole di lealtà e correttezza, alla cui stregua si deve ricostruire la volontà delle parti. Secondo autorevole dottrina quanto stabilito dall’art. 1460 comma 2 c.c. deve ritenersi applicabile a tutti i casi di autotutela.
    L’aspetto problematico relativo alla conformità a buona fede risiede nel fatto che la disposizione normativa dell’art. 1460 c.c. si limita a fare riferimento al principio di buona fede ma non indica in concreto quale sia il rifiuto che possa essere qualificato come contrario al principio indicato.
    Come canone di salvaguardia, il rifiuto del creditore di eseguire la propria prestazione risulta contrario a buona fede se l’eccezione comporta per il debitore conseguenze eccessivamente onerose; se l’inadempimento è di lieve entità e l’eccezione comporta l’estinzione dell’obbligazione dell’eccipiente; se l’eccezione pregiudica un diritto fondamentale della persona.
    Con riguardo alla prima ipotesi, si mette in evidenza che la stessa ricorre quando l’eccezione comporta per il debitore costi sensibilmente maggiori del semplbice pregiudizio derivante dalla sospensione dell’esecuzione del contratto. La seconda ipotesi di eccezione abusiva ricorre quando questa è sollevata a fronte di un inadempimento di scarsa importanza e la sospensione del contratto porta al risultato dell’estinzione dell’obbligazione dell’una o dell’altra parte(es. l’eccezione, sollevata per contestare un inadempimento di lieve entità, si protrae oltre la scadenza del termine essenziale).
    La terza ipotesi è quella in cui il rifiuto del creditore di eseguire la propria prestazione può pregiudicare la persona del debitore o di terzi (un esempio è il somministrante che sospende l’erogazione dell’acqua potabile).
    Ulteriore questione riguarda la proponibilità di una eccezione parziale di inadempimento relativa ad una inesattezza qualitativa o quantitativa della prestazione
    L’eccezione parziale di inadempimento è proporzionale all’inadempimento del debitore in quanto con la stessa il creditore rifiuta di eseguire una parte della propria prestazione in corrispondenza all’inesattezza della controprestazione.
    Se si tratta di inesattezza quantitativa, la parte della prestazione rifiutata è determinata direttamente dalla percentuale della riduzione della controprestazione. Se si tratta di prestazione qualitativamente inesatta, la parte della prestazione rifiutata è determinata secondo il criterio della riduzione del prezzo, ossia calcolando l’incidenza percentuale del vizio sul valore del bene e riducendo la prestazione nella stessa percentuale.
    Orbene, l’eccezione parziale di inadempimento è ammessa da una parte della dottrina mentre non manca chi si esprime negativamente sulla sua ammissibilità. L’eccezione parziale non è prevista dalla legge ma trae giustificazione dal fondamento dell’eccezione di inadempimento e dal principio di buona fede. Essa infatti consente la tutela della parte non inadempiente senza sacrificare l’altra parte e quindi nel rispetto della buona fede.
    Eccezioni reciproche sono, invece, quelle sollevate da entrambe le parti, ognuna delle quali contesta l’inadempimento dell’altra. La reciprocità delle eccezioni richiede di accertare quale delle due parti con il proprio comportamento abbia giustificato l’altra a sospendere l’esecuzione del contratto.
    Entrambe le eccezioni potrebbero risultare infondate.
    L’accertamento della legittimità dell’eccezione è rilevante ai fini della risoluzione del contratto poiché la parte che si autotutela mediante l’eccezione non è responsabile del ritardo. In tal caso, la controparte che abbia sollevato una eccezione infondata non potrebbe avvalersi della risoluzione del contratto per inadempimento. Piuttosto, la parte che solleva legittimamente l’eccezione potrà essa stessa risolvere il contratto sempreché l’inadempimento di controparte sia di non scarsa importanza.
    Per quanto concerne l’onere probatorio, si premette che in tema di responsabilità contrattuale, in via generale, il creditore deve dare prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte. Sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento.
    In passato, dottrina e giurisprudenza ritenevano che tale riparto dell’onere probatorio non fosse valido qualora fosse dedotto in giudizio un inesatto adempimento: in tale ipotesi, si affermava che il creditore non può limitarsi ad allegarlo ma deve fornirne la prova. Tale tesi è stata superata da una sentenza delle Sezioni Unite del 2001 in cui la Suprema Corte estende anche alle ipotesi di inesatto adempimento il principio della sufficienza dell’allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando anche in tal caso sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento.
    Tale arresto delle Sezioni Unite affronta nello specifico anche il tema della prova dell' eccezione di inadempimento. E’ stato osservato che il medesimo criterio di riparto dell' onus probandi, affermato in tema di azione di inadempimento,risoluzione,e risarcimento,deve essere applicato anche nel caso in cui il debitore convenuto si avvalga dell' eccezione per bloccare l' azione dell' attore. L' unica differenza é che in tale frangente, i ruoli saranno invertiti e cioè chi formula l' eccezione, pur essendo processualmente debitore contenuto, si troverà ad agire come se fosse l' attore e si limiterà ad allegare l' altrui inadempimento. La controparte, l' attore- creditore dell' azione primaria (che ai fini dell' eccezione é convenuto) dovrà dimostrare, per neutralizzare l' eccezione, il proprio adempimento o fornire la prova circa la non scadenza del termine della prestazione posta a suo carico.
    A ciò si aggiunga che nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio inadempimento con l' inadempimento dell' altra, occorre procedure alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti con riferimento non solo all' elemento cronologico delle rispettive inadempienza ma altresì ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle stesse rispetto alla funzione economico sociale del contratto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell' altra di eseguire la prestazione dovuta,tenendo presente il principio che quando l' inadempimento di una parte non sia grave,il rifiuto dell' altra non é di buona fede e non è giustificato.
    L' eccezione non é rilevabile d' ufficio dal giudice ma può essere proposta senza oneri di forma e anche stragiudizialmente.
    L’esercizio stragiudiziale del rimedio dell’eccezione deve essere rilevato d’ufficio dal giudice qualora la controparte faccia valere in giudizio il suo credito.
    In questo caso, il giudice non si sostituisce alla parte dell’esercizio del rimedio ma rileva che il convenuto si è già avvalso dell’eccezione giustificando il proprio inadempimento. Trova allora applicazione il principio secondo il quale il giudice deve tenere conto di tutti i fatti che giustificano l’inadempimento e impediscono la condanna del debitore, sempreché la prova di essi sia acquisita agli atti.
    Da quanto sopra, emerge la rilevanza dell’eccezione di inadempimento che costituisce certamente uno dei principali strumenti di autotutela ammessi in ambito di diritto civile dal nostro ordinamento.

    Voto Ottima conoscenza dell'istituto. 16. Personalmente non amo le digressioni storiche e soprattutto comparatistiche (diritto francese) che sanno più di un articolo dottrinale che di un tema per la magistratura. So che alcuni commissari la apprezzano, personalmente le ridurrei a brevissimi cenni.


    Altro tema Vi posto anche questo tema. Ha preso 12, un bel 12 pieno. Vorrei farvi vedere come un tema semplice, logico, lineare, di appena 4 facciate possa comunque essere apprezzato e sufficiente.

    L’ordinamento giuridico complessivamente considerato si propone l’obiettivo di rendere possibile la convivenza di consociati generalmente animati da interessi e scopi individualistici, potenzialmente contrastanti, attraverso la predisposizione di un apposito corpo normativo e di un relativo sistema applicativo. L’esigenza che esso tenta di perseguire, dunque, è quella significativamente espressa dal brocardo latino “ne cives ad arma ruant”. Tale premessa ha quale corollario funzionale l’esigenza che il sistema delle tutele cui il singolo consociato può ricorrere sia il più possibile efficiente ed effettivo. A tal fine, il funzionamento dell’impianto rimediale nella disponibilità dei consociati è normalmente affidato ad appositi organi pubblici, contraddistinti dai caratteri della terzietà, della imparzialità e della indipendenza: si allude, chiaramente, alle autorità giudiziarie.
    Ne consegue che l’ordinamento giuridico, di norma, non offre cittadinanza alle forme di giustizia privata, come significativamente riprovato dall’incriminazione dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p.
    Ciononostante, sussistono circostanze, specifiche ed eccezionali, in quanto tali di stretta interpretazione ed applicazione ex art. 14 disp. prel. c.c., in cui il consociato è legittimato a difendere da sé gli interessi afferenti alla propria sfera giuridica, minacciati dall’altrui invasione. Ipotesi siffatte, dunque, vengono dunque catalogate nella categoria della c.d. autotutela, giustificandosi alla luce di un’urgente e non differibile esigenza di difesa, dalla cui mancata attivazione discenderebbe un danno irreparabile. Circostanza, questa, che non permetterebbe di attendere i tempi degli ordinari canali della tutela giurisdizionale, innanzi agli organi a ciò preposti.
    Se quanto finora rilevato vale generalmente per l’ordinamento giuridico, le stesse coordinate ricostruttive, laddove applicate al ramo giuscivilistico, necessitano di precipue specificazioni. In tale ambito ordinamentale, infatti, l’autotutela si traduce in una forma di reazione da parte del soggetto privato a un altrui fatto illecito, tanto di natura extracontrattuale quanto integrante un inadempimento contrattualmente rilevante. L’attività di autotutela, pertanto, può concretamente tradursi in un atto materiale, in un atto giuridico in senso stretto o anche in un negozio giuridico.
    In questa prospettiva ricostruttiva, giova richiamare la classificazione, invalsa nella scienza giuridica, tra autotutela bilaterale o convenzionale e autotutela unilaterale. La prima si basa su forme di accordi anticipatamente posti in essere tra le parti di un rapporto giuridico, in chiave preventiva rispetto alle successive possibili evoluzioni di esso. La seconda, invece, contempla quelle forme di reazione che il singolo soggetto può porre in essere a tutela della propria sfera giuridica, in modo autonomo e giuridicamente indipendente da un previo patto in tal senso con il destinatario della sua condotta.
    A ben vedere, quindi, l’autotutela bilaterale o convenzionale consiste in una precipua declinazione della stessa autonomia negoziale, che l’ordinamento riconosce in capo ai privati per la cura e il perseguimento dei propri interessi. Detta autonomia, laddove finalisticamente orientata all’autotutela, può condurre alla pattuizione di specifiche clausole in seno al regolamento contrattuale, come quella penale a mente dell’art. 1382 c.c., ovvero alla costituzione di peculiari garanzie reali, come il pegno o l’ipoteca ai sensi degli artt. 2784 e 2808 c.c., o, ancora, alla conclusione di specifici accordi, come il sequestro convenzionale ex art. 1798 c.c. In tutte queste ipotesi, la libertà negoziale delle parti è strumentale al perseguimento di una finalità cautelare e prudenziale, che mira a proteggere “ex ante”, quindi a monte, gli interessi giuridici coinvolti.
    Sulla scorta del dato da ultimo rilevato, alcuni interpreti hanno tratto argomento per sostenere, nelle fattispecie riferite, l’assenza del “proprium” dell’autotutela, cioè l’urgenza di fronteggiare in modo tempestivo un’invasione della propria sfera giuridica. Il che condurrebbe a qualificare i citati istituti come di autotutela solamente in un’accezione lata della nozione.
    Viceversa, il cennato tratto caratteristico è pacificamente rinvenuto nelle ipotesi di autotutela unilaterale, la quale, peraltro, ha base giuridica direttamente nella legge, a differenza dell’autotutela convenzionale, che rinviene la propria fonte nella volontà delle parti. ok
    Con specifico riferimento all’autodifesa unilaterale, tradizionalmente si è soliti distinguere un’autotutela unilaterale attiva, avente per contenuto una condotta positiva e per risultato un mutamento protettivo della situazione di fatto e di diritto, e un’autotutela unilaterale passiva, avente per contenuto un’omissione e per risultato il mantenimento dello stato di fatto contro la pretesa altrui di mutarlo.
    Nel primo novero si iscrivono, quali fattispecie paradigmatiche, la legittima difesa civilistica ex art. 2044 c.c., lo stato di necessità ex art. 2045 c.c., la diffida ad adempiere ai sensi dell’art. 1454 c.c. e l’alienazione di quote del socio moroso a mente dell’art. 2466 c.c.
    Nel secondo gruppo, invece, si annoverano il diritto di ritenzione, nelle sue molteplici declinazioni note all’ordinamento, l’eccezione di mutamento delle condizioni economiche dell’altro contraente e la connessa facoltà di sospendere l’esecuzione della prestazione ex art. 1461 c.c., nonché l’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c.
    Particolare interesse suscita proprio questo ultimo istituto, espressione del principio “inadimplenti non est adimplendum“, il quale si sostanzia nella riconosciuta facoltà della parte di un contratto a prestazioni corrispettive di sospendere l’adempimento della propria prestazione, nel caso in cui l’altra parte, contestualmente, non esegua o non offra di adempiere la propria. Ciò, peraltro, nel limite in cui termini diversi per l’adempimento non siano dedotti dalle stesse parti in seno al regolamento contrattuale o non risultino dalla natura del contratto.
    Risulta agevole scorgere la “ratio” dell’istituto nell’esigenza di tutelare ciascun contraente dal rischio cui si espone fisiologicamente con il perfezionamento del contratto, quello dell’inadempimento della controparte, il quale si collega a doppio filo alla salvaguardia dell’equilibrio sinallagmatico del contratto. L’art. 1460 c.c., infatti, solo da un lato si offre al contraente come rimedio attributivo di un potere di autotutela, perché, dall’altro lato, costituisce un mezzo di conversazione degli stessi equilibri del sistema giuscivilistico, il quale protegge con estrema attenzione il nesso di reciprocità che lega le prestazioni in un contratto a prestazioni corrispettive.
    La qualificazione in termini di strumento di autotutela dell’“exceptio inadimplenti contractus” si deve alla possibilità di scorgere, nella sua struttura, tutti gli elementi genetici che caratterizzano il fenomeno in questione. Innanzitutto, il carattere provvisorio del rifiuto di adempiere, il quale non rende a sua volta inadempiente l’eccipiente, né rende inesigibile la controprestazione, poiché il diritto al suo conseguimento rimane fermo. In secondo luogo, l’incidenza sulla sfera giuridica della controparte inadempiente, a fronte della persistenza della sua inadempienza. Ancora, l’assenza di un preventivo controllo dell’autorità giudiziaria sui presupposti e sulle condizioni di operatività dell’eccezione. Infine, il carattere autonomo, trattandosi di un potere che la parte può esercitare indipendentemente, al fine di proteggere la propria sfera giuridica dall’inadempimento altrui, nella prospettiva egalitaria delle posizioni delle parti nella fase di esecuzione del contratto, ossequiosa del principio di buona fede.
    L’eccezione di inadempimento, alla luce di quanto rilevato, viene descritta non già in termini di generico diritto del debitore a non adempiere, bensì quale vero e proprio diritto potestativo, riconosciuto dalla legge al privato e finalizzato alla tutela della sua posizione giuridica nell’ambito di uno schema negoziale caratterizzato da reciprocità di posizioni creditorie e debitorie. In questa prospettiva, dunque, si ritiene che l’effetto sortito dall’eccezione sia quello di rendere temporaneamente inesigibile la prestazione della parte non inadempiente. Effetto, questo, nel quale si rinviene il nucleo centrale del potere di autotutela, teso alla conservazione dell’equilibrio delle rispettive posizioni di diritto e di obbligo delle parti in un contratto a prestazioni corrispettive.
    Giova, a questo punto, individuare i presupposti e le condizioni dell’eccezione di inadempimento a mente dell’art. 1460 c.c. Così, da una parte, il presupposto viene pacificamente identificato nella corrispettività delle prestazioni pattuite nel contratto, che la stessa lettera della disposizione richiede. Dall’altra parte, le condizioni sono individuate nell’inadempimento in cui è incorsa una delle parti, nella contemporaneità tra le prestazioni e nella conformità a buona fede del comportamento tenuto dall’eccipiente.
    Come maggiore impegno esplicativo, va ribadito che a prestazioni corrispettive si intendono i contratti connotati da uno schema causale in cui le attribuzioni patrimoniali, rispettivamente poste a vantaggio ed carico di ciascuna delle parti, siano avvinte da un nesso di reciprocità (il c.d. nesso sinallagmatico). L'idea di corrispettività, pertanto, evoca propriamente lo scambio, nella misura in cui, a fronte di una delle parti che si obbliga ad effettuare una prestazione, l'altra, a propria volta, si obbliga ad effettuare un'ulteriore diversa prestazione a vantaggio della prima.
    L’inadempimento, invece, ricorre nell’ipotesi in cui il debitore non esegue la prestazione dovuta, la esegue in modo tardivo oppure in modo inesatto. Risalente e dibattuta è la connotazione da attribuire all’inadempimento così delineato nei suoi tratti essenziali e, cioè, se esso debba configurarsi come oggettivo ovvero come soggettivo. Nel primo caso, esso sarà integrato per il solo fatto della mancata, tardiva o inesatta esecuzione della prestazione. Nel secondo caso, invece, esso ricorrerà solo laddove sussista, altresì, un coefficiente psicologico, la c.d. imputabilità al debitore. Sebbene la prevalente giurisprudenza e dottrina accolgano una concezione soggettivistica di inadempimento, occorre interrogarsi se tali conclusioni valgano anche rispetto all’eccezione ex art. 1460 c.c. OKK
    Sul punto, parte della dottrina ritiene che l’esercizio del rimedio possa prescindere dalla responsabilità della parte in relazione all’inadempimento, poiché le istanze di autotutela e la loro meritevolezza permangono anche laddove il mancato adempimento della controprestazione dipenda da causa non imputabile.
    Di contrario avviso è la giurisprudenza di legittimità, la quale è addivenuta a una concezione unitaria di inadempimento, accogliendone un’accezione eminentemente soggettivistica. Di talché, l’inadempimento legittimante l’opposizione dell’eccezione ex art. 1460 c.c. è quello addebitabile al debitore sotto il profilo psicologico, a titolo di dolo o colpa.
    Ulteriore profilo dibattuto concerne la necessità o meno che l’inadempimento sia grave. Infatti, secondo certa dottrina, l’eccezione non esigerebbe la gravità dell’inadempimento, elemento postulato solo ai fini della diversa azione di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. Ciò sulla scorta dell’argomento per cui, mentre la risoluzione sortisce l’effetto definitivo di caducazione del contratto, l’eccezione si limita a sospenderne l’esecuzione. Sicché, in forza di un canone di proporzionalità e ragionevolezza, il rimedio meno incisivo dell’eccezione postula un inadempimento meno grave. ok
    A conclusioni opposte addiviene la giurisprudenza di legittimità, la quale pretende il carattere della gravità a qualificare specificamente l’inadempimento affinché possa legittimarsi il ricorso all’“exceptio”. In particolare, un’inesattezza di lieve entità non si ritiene idonea a legittimare l’opposizione dell’eccezione, in quanto ciò contrasterebbe con il requisito di buona fede e con l’obbligo di correttezza imposto dall’art. 1175 c.c. alle parti. In altri termini, il rifiuto di eseguire la prestazione dell’eccipiente a fronte di un inadempimento di scarsa importanza, dovrebbe ritenersi contrario a buona fede.
    L’eccezione di inadempimento come tratteggiata, in quanto manifestazione del potere di autotutela civilistica, dovrebbe rinvenire il proprio terreno di applicazione elettivo nella sede stragiudiziale. Ciò, in particolare, attraverso una sua applicazione sul piano sostanziale, consistente nella manifestazione di volontà di chi si avvale dell’eccezione stessa.
    Tuttavia, ciò non ha impedito all’art. 1460 c.c. di trovare applicazione anche in sede giudiziaria e, anzi, proprio in tale sede va rinvenuta la scaturigine di tale rimedio. Come la tradizione romanistica insegna, infatti, le eccezioni costituivano i rimedi attraverso cui i pretori, in seno ai giudizi, riconducevano il diritto civile, la cui applicazione rigoristica e letterale rischiasse di risultare ingiusta, ad equità sostanziale. Sicché, “mutatis mutandis”, oggi come allora, il convenuto in giudizio per l’adempimento del contratto ha la possibilità di difendersi dalla domanda attorea opponendo l’“exceptio inadimplenti contractus”.
    Non sembrano rinvenirsi ragioni che ostino alla deduzione dell’eccezione per la prima volta in giudizio, non subordinando la normativa di riferimento la sospensione dell’esecuzione del contratto a fronte dell’inadempimento della controparte alla previa intimazione d’una diffida né ad alcuna generica previa contestazione dell’inadempimento.
    Alla luce di quanto evidenziato, particolare interesse suscita la questione della ripartizione dell’onere della prova, la quale, a sua volta, rinvia al più ampio tema probatorio dell’inadempimento dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1218 c.c. A tale ultimo riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito, con il sigillo delle Sezioni Unite, che il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento o per l’esatto adempimento, deve limitarsi a provare il titolo costitutivo del suo diritto, mentre può limitarsi alla mera allegazione dell’inadempimento della controparte. Viceversa, il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo della pretesa altrui.
    Se questo vale per la normalità dei casi, laddove, invece, il contraente convenuto ricorra all’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., i ruoli delle parti si invertono. Ne deriva che il debitore eccipiente, a sua volta, può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento, spettando al creditore attore l’onere probatorio di dimostrare il proprio adempimento o la scadenza non ancora intervenuta dell’obbligazione.
    Parte della dottrina e della giurisprudenza, inoltre, aveva ritenuto che la regola riferita non valesse qualora sia dedotto, a fondamento della domanda, un inesatto adempimento, in tal caso il creditore non potendosi limitarsi ad allegare l'inesatto adempimento, ma dovendone fornire la prova. Ciononostante, la tesi è stata superata dalla giurisprudenza di legittimità più recente, la quale, in forza di condivisibili esigenze di omogeneità del regime probatorio, ha esteso anche all'ipotesi dell'inesatto adempimento il principio della sufficienza dell'allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, gravando anche in tale eventualità sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento o sul creditore a seguito di eccezione ex art. 1460 c.c.
    Tali conclusioni in merito all’“onus probandi” si giustificano alla luce dell’intersezione di due principi, quello di vicinanza della prova da un lato, quello di presunzione di persistenza del diritto ex art. 2697 c.c. dall’altro. Il primo, infatti, impone che il relativo onere sia addossato al soggetto per il quale esso risulta meno gravoso, il debitore. Ed è di tutta evidenza che risulta molto più agevole per il debitore dimostrare il fatto positivo dell'adempimento che non per il creditore dimostrare il fatto negativo dell'inadempimento altrui. Il secondo, invece, postula che chi agisce a tutela di un diritto deve dimostrare i fatti costitutivi dello stesso, non già quelli estintivi. Sicché, muovendo dalla qualificazione dell’adempimento quale mezzo di estinzione dell’obbligazione, ne deriva che al creditore compete la sola prova del titolo costitutivo del rapporto, non quella della sua mancata estinzione, la quale è, per l’appunto, presunta.
    Alla luce dell’articolato iter ricostruttivo sin qui condotto, è possibile rilevare come l’ordinamento giuridico, nel tentativo di essere esaustivo e di predisporre una tutela efficace dei consociati che al suo interno operano, talvolta si avvale eccezionalmente dell’istituto dell’autotutela. Tuttavia, in quanto eccezionali, i casi ad essa riconducibili vanno individuati e applicati tassativamente, in stretta aderenze ai principi solidaristici della buona fede e della corretta, senza cedere a distorsioni egoistiche né divenire strumenti di un giustizialismo facile, privo di adeguate basi giuridiche e contrario ai canoni informatori dell’ordinamento. Questo ultimo, infatti, riservando all’autotutela il rango di eccezione, conferma la regola generale dell’affidamento della tutela dei privati ai pubblici poteri.
    Voto 12

    P.S. HO UN TEMA SULL'ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO SENZA NICK O NOME. CHI NON SI TROVA LA CORREZIONE NELLA CASELLA MAIL LANCI UN URLO :)
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    Quando preparavo gli scritti,per una simulazione più realistica scrivevo la brutta a penna su fogli di quadernone e cronometravo 5 ore. Il resto del tempo lo dwdicavo alla battitura a pc.
     
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  3. Tywin Lannister
     
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    Condivido questo "modus operandi", ma bisogna tenere conto che la battitura a pc è notevolmente più rapida rispetto alla scrittura a mano.
    In definitiva, il tema summenzionato non è di quattro facciate, bensì almeno di otto, e mi sembra una dimensione media accettabile. Ma un tema che oscilla dalle 15 alle 20 facciate, oltre ad essere difficilmente realizzabile in sede concorsuale, non so fino a che punto sia visto di buon occhio dalla commissione (al riguardo, si registrano opinioni discordanti).
     
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    meglio fare pratica "a mano"
     
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    Nuovo OTTIMO concorso di 140 posti...

    ...COMMISSARIO DI POLIZIA: termini non ancora scaduti, bando e informazioni sul sito della Polizia di Stato

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