Legge sulla inappellabilità, Sollevata questione di illegittimità costituzionale

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Gius. Marseglia
view post Posted on 21/3/2006, 11:16




CORTE DI APPELLO DI BRESCIA Sez. II ord.665 del 10 marzo 2006
Sulla eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., come modificato dall’art.1 l.n. 46/2006 (per consultare il testo della legge clicca qui http://www.forumfree.net/?t=6721759)

Reg. Gen. N. 655/2005 RGTM


ORDINANZA
La Corte di Appello di Brescia, Sezione Seconda Penale, riunita in camera di consiglio con l’intervento dei Sigg.
1) Dott. Donato Pianta - Presidente
2) Dott. Carlo Zaza – Consigliere rel.
3) Dott. Anna Petruzzellis – Consigliere
Sulla eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., come modificato dall’art.1 l.n. 46/2006, proposta all’odierna udienza dal Procuratore Generale;


OSSERVA IN FATTO

Con sentenza del Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Grumello del Monte, in data 10.6.2004 Bellini Anna Maria, Brignoli Ettore e Brignoli Luigi venivano assolti dalle imputazioni di realizzazione di una discarica non autorizzata di rifiuti pericolosi, spargimento di rifiuti non pericolosi provenienti da sbancamento stradale, miscelazione di rifiuti pericolosi con materiali inerti, realizzazione di opere edilizie senza concessione, lesioni colpose plurime derivate a diversi cittadini da esalazioni provenienti dalla discarica e simulazione di reato con falsa denuncia contro ignoti per la diffusione delle sostanze tossiche di cui ai capi precedenti, commessi in Credaro fino al 25.9.2000. Nel provvedimento si osservava in particolare che nella fattispecie era accertato un mero abbandono di rifiuti, tale da non integrare realizzazione di una discarica, ma deposito incontrollato sanzionato amministrativamente dall’art.14 D.l.vo 22/1997; che non si poteva escludere, in base agli elementi acquisiti, che le sostanze tossiche fossero state scaricate da terzi nell’area riconducibile agli imputati; che i materiali inerti rinvenuti nell’area non costituivano rifiuti, ai sensi dell’art.8 D.l.vo 22/1997, in quanto provenienti da sbancamento stradale; che non risultava comunque accertato chi degli imputati dovesse intervenire per ridurre le esalazioni; e che i lavori di sbancamento e riempimento per i quali era contestata la violazione edilizia erano in realtà debitamente autorizzati.
Avverso detta sentenza presentava appello il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo, chiedendo venisse invece affermata la penale responsabilità degli imputati e rilevando che le prove raccolte consentivano di ritenere accertato che questi ultimi fossero autori dell’abbandono dei rifiuti, e che i lavori di sbancamento necessitavano di concessione edilizia ed integravano la realizzazione di una vera e propria discarica abusiva.
All’odierna udienza il Procuratore Generale, preso atto delle limitazioni alla facoltà di appello del pubblico ministero introdotte dalla sopravvenuta modifica dell’art.593 c.p.p. per effetto della previsione di cui all’art.1 l.46/2006, e ritenute dette limitazioni operanti per l’impugnazione in discussione nel presente procedimento, eccepiva illegittimità costituzionale della norma da ultima citata con riferimento agli artt.3, 24, 25, 11 e 112 Cost..


OSSERVA IN DIRITTO

Con la norma, della cui legittimità costituzionale il Procuratore Generale dubita, la disciplina dei casi di appello prevista dall’art.593 c.p.p. è stata profondamente modificata con particolare riguardo all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento pronunciate in primo grado, ad eccezione delle sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato e di altre specificamente indicate.
La previgente normativa escludeva tale appellabilità al terzo comma del citato art.593, sia per il pubblico ministero che per l’imputato, con riferimento alle sentenze relative a contravvenzioni punite con la pena dell’ammenda o con pena alternativa, ed al secondo comma, limitatamente al solo imputato, per le sentenze di proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto.
Per effetto della recentissima modifica, il secondo comma dell’art.593, nell’attuale formulazione, consente ora al pubblico ministero ed all’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento solo allorché con i motivi di appello, ai sensi dell’art.603 cpv. c.p.p., venga richiesta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, e dette prove abbiano il carattere della decisività; prevedendosi dal punto di vista procedurale che il giudice dell’appello, ove in via preliminare non ammetta la rinnovazione dell’istruttoria, dichiari l’inammissibilità del gravame, e che entro il termine di quarantacinque giorni dalla notificazione della relativa ordinanza le parti possano proporre ricorso per cassazione anche avverso la sentenza di primo grado.
L’art.10 l. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi applicazione per i procedimenti in corso; disponendo che l’atto di appello proposto avverso una sentenza di proscioglimento prima dell’entrata in vigore della nuova normativa sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, e che entro il termine di quarantacinque giorni dalla notificazione di quest’ultima possa essere presentato ricorso per cassazione avverso la decisione di primo grado.
Tanto premesso, e richiamando quanto precedentemente esposto sulla vicenda processuale, è evidente la rilevanza nel presente giudizio della questione proposta dal Procuratore Generale. Al procedimento in esame, per effetto della citata norma transitoria, deve senz’altro applicarsi, invero, la nuova disciplina; essendo di conseguenza l’appello in discussione soggetto a declaratoria di inammissibilità, con la conseguente possibilità, per il pubblico ministero appellante, di esperire il ben diverso e più delimitato rimedio del ricorso per cassazione .
Il requisito della rilevanza dell’eccezione è dunque sussistente.

Altrettanto deve concludersi, peraltro, in ordine all’ulteriore presupposto della non manifesta infondatezza della questione.
E’ opportuno premettere che, per quanto la novella legislativa abbia ad oggetto l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte sia dell’imputato che del pubblico ministero, è nei confronti di quest’ultimo che la limitazione dell’accesso al gravame in discussione assume portata preponderante e, sostanzialmente, rilievo centrale. All’imputato era invero già inibita dalla precedente normativa la possibilità di appellare sentenze di proscioglimento con formula piena. Ma, a prescindere da questa pur pregnante circostanza, non occorre spendere molte parole per evidenziare come in generale, a fronte di una pronuncia assolutoria, l’interesse ad impugnare si concentri in concreto sul pubblico ministero più che sull’imputato.
L’incidenza di una siffatta limitazione sui poteri di impugnazione del pubblico ministero non richiede, a sua volta, particolare commento. E’ sufficiente osservare come per effetto di essa l’ufficio della pubblica accusa si veda privato nella grandissima maggioranza dei casi del potere di appellare una sentenza di proscioglimento in primo grado. L’esercizio di tale potere presuppone infatti, nell’attuale previsione normativa, che nuove prove siano emerso dopo il giudizio di primo grado; e, per giunta, che esse si presentino come decisive per il giudizio. Ove la marginalità statistica di una situazione così descritta può essere agevolmente apprezzata da chiunque abbia minima esperienza delle cose giudiziarie.
Una deprivazione di facoltà processuali di tale portata impone un controllo sulla ragionevolezza della relativa previsione normativa; e ciò soprattutto nel momento in cui le predette facoltà, in quanto riferite alla figura istituzionale del pubblico ministero, si ricollegano a valori di fondamentale rilevanza costituzionale.

Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, da parte del pubblico ministero, di cui all’art.112 Cost..
La centralità del principio in parola nel sistema complessivo della giurisdizione penale è data, vale la pena qui ricordarlo, non solo dal suo contenuto specifico; ma altresì dalla sua funzionalità alla concreta attuazione di valori a loro volta caratterizzati da valenza costituzionale.
È dato acquisito da tempo nella stessa giurisprudenza costituzionale, formatasi sulle norme del codice di procedura penale ora vigente a partire dalla sua entrata in vigore, che l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, ufficio non a caso interno ed integrante dell’ordine giudiziario nella visione del legislatore costituente, sia manifestazione del fondamentale principio di legalità, di cui all’art.25 Cost., nel suo aspetto sostanziale; in quanto esso esprime, cioè, la necessità che alla commissione di reati, lesivi di interessi e valori spesso a loro volta di rango costituzionale o comunque di elevata rilevanza sociale, segua l’inflizione di una pena .
Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del diritto di difesa garantito dall’art.24 Cost. anche alle parti offese dei reati. Diritto che non può ritenersi attuato dalle sole norme connesse all’istituto della costituzione di parte civile nel processo penale; rispetto al quale, a dire il vero, l’art.6 l.46/2006, modificando l’art.576 c.p.p. con l’escludere il riferimento operativo della facoltà di impugnazione della parte civile al mezzo di gravame previsto per il pubblico ministero, continua a rendere possibile l’appello di essa parte civile avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado, sia pure ai soli effetti della responsabilità civile. L’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero vale infatti ad offrire alle vittime dei reati l’essenziale tutela del loro legittimo interesse ad ottenere giustizia, a prescindere dalle possibilità che dette vittime in concreto abbiano di accedere al processo nelle forme dell’azione civile ivi direttamente intrapresa.
Detto questo, è ben vero che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha affermato come il potere di appello del pubblico ministero non possa essere ricondotto all’obbligo di esercitare l’azione penale . Ma è vero altresì che il principio è stato dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso che la facoltà di impugnazione non costituisca “estrinsecazione necessaria” dell’esercizio dell’azione penale . Detta facoltà rappresenta dunque non più che uno dei possibili sviluppi, e non il necessario prolungamento dell’azione penale; ma, in questa prospettiva, limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non possono che riverberarsi sulla completezza delle possibilità di esercizio dell’azione. E qui ci troviamo di fronte, come si è visto, ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi.
Avuto riguardo al contesto di valori costituzionalmente rilevanti di cui le opportunità di esercizio dell’azione penale sono, per quanto esposto, espressione, diviene assolutamente doveroso interrogarsi sulla possibilità, per il legislatore ordinario, di apporre a detto esercizio limitazioni di tale entità nell’ambito della normale discrezionalità legislativa; e sulla necessità, di contro, che una scelta di questo genere debba essere ancorata rigorosamente ad un canone di ragionevolezza.

Vi è però anche un altro profilo di rilevanza costituzionale che deve essere oggetto di analisi in questa prospettiva; profilo che attiene al principio del contraddittorio processuale posto dall’art.111 Cost..
E’ appena il caso di precisare che qui non si intende fare riferimento al principio del contraddittorio nella formazione della prova, di cui al quarto comma della norma costituzionale appena citata. Oggetto di attenzione deve essere invece il più generale richiamo del secondo comma dell’articolo alla necessità che il processo si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni di parità delle stesse.
Il contraddittorio, invero, assurge qui a valore che pervade il processo nella sua interezza; e quindi necessariamente coinvolge la fase dell’appello, che del processo costituisce passaggio essenziale. Ed è, soprattutto, valore in sé considerato, a prescindere dai contingenti interessi delle parti; il contraddittorio è binario privilegiato del percorso processuale, garanzia di approssimazione quanto più efficace possibile alla verità. Ed in questa linea, la parità fra le parti, prima che tutela delle stesse, è oggettiva esigenza di un contraddittorio reale.
Se così è, la parità di cui si parla non può che inerire anche alla fase dell’appello; e, nell’ambito di essa, al suo momento introduttivo e fondante, ossia la definizione dei casi in cui è consentito appellare.
Ed allora, non è chi non veda come la norma della cui legittimità si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra le parti; impedendo quasi totalmente al pubblico ministero l’appello in caso di esito assolutorio del giudizio di primo grado, laddove nell’opposto risultato della pronuncia di responsabilità è concessa all’imputato piena facoltà di impugnazione.
Questa Corte non ignora che la recente giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che il principio della parità nel contraddittorio non comporti necessariamente l’identità fra i poteri processuali delle parti. Ma, anche in questo caso, ciò che è stato escluso è un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due elementi. Rimane tutto da valutare, quindi, se in concreto la disparità fra determinati poteri, a cagione della loro rilevanza, non alteri in misura intollerabile l’equilibrio imposto dalla norma costituzionale; e, soprattutto, se di tale disparità non vada pretesa una giustificazione che la renda ragionevole.
In questa ottica, le possibilità di appello, per quanto detto pocanzi, ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro impari distribuzione fra le parti rientra dunque fra quelle situazioni nelle quali la non sovrapponibilità dei poteri processuali pregiudica significativamente il principio del contraddittorio.
Anche per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente esaminato, occorre sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto la modifica dell’art.593 c.p.p. ad un accurato scrutinio di ragionevolezza.

Le diverse considerazioni che precedono portano a quello che, a questo punto, si presenta come il cuore del problema; vale a dire, la compatibilità della norma esaminata con il principio di ragionevolezza, desumibile, come è noto, dall’art.3 Cost.. Ragionevolezza che deve però essere valutata nella prospettiva della tollerabilità del sacrificio che la norma impone agli altri valori costituzionali fin qui menzionati; segnatamente il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, nel suo profilo di stretta funzionalità ai valori del principio di legalità sostanziale e del diritto di difesa delle vittime dei reati, ed il principio del contraddittorio nella parità delle parti, che dà forma al giusto processo.
Ebbene, un esame condotto in questa direzione non può che condurre ad un giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
E’ da escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie di ragioni corrispondenti o similari a quelle che ispirano la previsione di altre e diverse limitazioni dei poteri processuali del pubblico ministero; giudicate coerenti con il dettato costituzionale, sotto il profilo del principio del contraddittorio, dalle già segnalate decisioni della Corte Costituzionale. Quali l’esclusione della possibilità per il pubblico ministero di presentare l’atto di impugnazione nella cancelleria del tribunale, diversa dal luogo di emissione del provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui all’art.582 cpv. c.p.p. , evidentemente sorretta da motivi di celerità processuale e comunque posta a fondamento di una limitazione di ben minore consistenza delle facoltà dell’organo dell’accusa; o l’inappellabilità, anche in prospettiva incidentale, da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, di cui all’art.443 comma terzo c.p.p., ove ad analoghe ragioni di speditezza si aggiunge l’intento di favore per l’adozione di riti deflattivi . Nel caso di specie, non è ravvisabile alcun risultato di accelerazione dell’iter processuale che giustifichi la scelta legislativa la sostanziale soppressione di un mezzo di impugnazione disponibile al pubblico ministero.
Neppure può attribuirsi rilievo alla particolare posizione istituzionale che il pubblico ministero assume nel nostro ordinamento giudiziario; posizione caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove favorevoli all’imputato in sede di indagine e da un’obiettiva considerazione degli elementi a carico dell’imputato stesso, che non vincola l’ufficio dell’accusa a richieste che siano necessariamente intese a sollecitare una conclusione in termini di condanna. Questi rilievi sono infatti superati nel momento in cui ci si trova nella fase processuale a cui attiene la norma in discussione; che presuppone la conseguita determinazione del pubblico ministero di impugnare la pronuncia assolutoria di primo grado per ottenere una sentenza di condanna, e quindi una valutazione culminata, pur nella particolare prospettiva che connota l’operato dell’ufficio d’accusa, nel giudizio di sussistenza di congrue prove a carico dell’imputato. Il che da un lato pone il pubblico ministero nella condizione di proseguire in secondo grado nell’esercizio dell’azione penale in attuazione dei valori di legalità e difesa sociale di cui si è ampiamente detto; e dall’altro esige che il processo mantenga un equilibrato contraddittorio fra tali ragioni e quelle della difesa dell’imputato, perché nessuna opportunità di ricerca della verità venga ad essere sottratta al giudizio.
Non può infine essere invocata, come correttamente osservato dal Procuratore Generale, la previsione del primo comma dell’art.2 del protocollo n.11 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificato con l.296/1997. Se è vero infatti che la citata disposizione prevede che chiunque venga dichiarato colpevole di un reato da un giudice di primo grado ha il diritto di sottoporre ad un ufficio della giurisdizione superiore la dichiarazione di condanna, è vero altresì che il secondo comma dello stesso articolo consente eccezione al principio nel caso in cui la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento; indicazione, quest’ultima, puntualmente corrispondente alla normativa preesistente all’intervento legislativo oggetto della questione.
Non può sottacersi, di contro, come la nuova disciplina dell’art.593 c.p.p. crei un’irragionevole disparità di trattamento laddove per un verso impedisce al pubblico ministero l’appello contro sentenze di proscioglimento e per altro mantiene la possibilità per lo stesso pubblico ministero di appellare una sentenza di condanna; in tal modo privilegiando la cura di un interesse processuale di indubbiamente minore consistenza.
Queste considerazioni inducono a ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità della norma in oggetto con i richiamati artt.24, 111 e 112 della Costituzione; e quindi esistenti i presupposti di legge perché gli atti vengano trasmessi alla Corte Costituzionale per la decisione in merito, con la conseguente sospensione del procedimento.


P. Q. M.
La Corte di Appello di Brescia, Sezione Seconda penale,
visto l’art. 23 l. n.87 del 1953,
dichiara
rilevante ai fini della definizione del giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa al contrasto dell’art. 593 cpp, come modificato dall’art. 1 l. n. 46/2006, con gli artt. 3, 24, 111, 112 Cost.
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, e manda alla Cancelleria per la notifica dell’ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, nonché alle parti processuali, all’atto del deposito del provvedimento.
Sospende il giudizio in corso.
Brescia, 10.3.2006
Il Presidente

Il Consigliere rel.

Edited by Gius. Marseglia - 23/3/2006, 16:28
 
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gioia fugace
view post Posted on 22/3/2006, 13:12




LA CORTE D'APPELLO DI TORINO
Sezione Terza Penale
Composta da
Dott. Gustavo WITZEL Presidente
Dott. Francesco BARTOLINI Consigliere
Dott. Paola PERRONE Consigliere

Nel procedimento a carico di ARIONE Bruno e TERRACINI Davide, giudicati con sentenza del Tribunale di Pinerolo in data 11.2.04 e in tale sede assolti dai reati rispettivamente ascritti perchè il fatto non sussiste o non costituisce reato;

Preso atto che avverso tale sentenza ha presentato tempestivo appello il Procuratore della Repubblica di Pinerolo, chiedendo che gli imputati siano dichiarati colpevoli dei reati loro ascritti e condannati alle pene di legge, non richiedendo la riassunzione di prove ex art. 603 cpp
Preso atto che hanno presentato (in via ordinaria o incidentale) appello anche gli imputati ARIONE e TERRACINI, chiedendo che la Corte d’Appello modifichi la formula di proscioglimento del fatto non costituisce reato con quella dell’insussistenza del fatto, anch’essi non richiedendo la
riassunzione di prove ex art. 603 cpp

HA EMESSO LA SEGUENTE ORDINANZA

La Corte si trova a dare applicazione alla recente L.n. 46 del 20.2.06, entrata in vigore il 9.3.2006 che ha modificato l’art.593 c.p.p. nel senso di precludere in ogni caso al PM e all’imputato l’appello avverso sentenze di proscioglimento, a meno di aver richiesto l’assunzione di una prova che il Giudice reputi decisiva (situazione questa non verificatasi nel presente processo).
La norma transitoria di cui all’art. 10 della predetta legge impone al Giudice, innanzi al quale pende l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della novella, di emettere ordinanza non impugnabile con la quale dichiara l’inammissibilità dell’appello.
Pertanto la normativa in questione è direttamente rilevante nella presente fase che vede gli imputati assolti in primo grado a seguito di giudizio ordinario e citati a giudizio innanzi a questa Corte a seguito di appello presentato dal P.M. e a seguito del loro appello per ottenere una formula più liberatoria.

Appare del tutto evidente la non manifesta infondatezza della normativa in questione per violazione dell’art. 111 Cost. con riferimento all’ inammissibilità dell’appello da parte del PM.
La Costituzione enuncia i principi generali cui deve conformarsi la normativa che disciplina il processo in Italia, stabilendo al comma 2 dell’ art. 111, che il processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale e che la legge ne assicura la ragionevole durata.
La condizione di parità che deve essere riconosciuta alle parti dalla legge processuale non può intendersi limitata alla mera istruzione probatoria (parità nel contraddittorio) ma deve intendersi in senso lato e ampio, giacchè sarebbe allora ridondante la previsione specifica di cui al comma IV del medesimo art. 111, ed inoltre perchè il medesimo comma II prescrive che il giudice sia terzo ed imparziale e ciò non può evidentemente limitarsi alla fase dell’acquisizione della prova ma deve estendersi al complesso delle funzioni giurisdizionali esercitate nel processo, prima fra tutte quella della valutazione delle prove e della decisione.
Per processo la Costituzione intende l’intero iter che conduce dalla domanda iniziale (civile) o dalla notizia di reato (penale) fino alla sentenza definitiva che appunto chiude la controversia (si veda testualmente l’art. 24.2).
Poichè nel processo agiscono parti fisiologicamente portatrici di interessi contrapposti, l’art. 111 Cost. disciplina dunque come la legge ordinaria deve regolamentare l’attribuzione alle parti delle facoltà per far valere ed eventualmente farsi vedere accogliere le loro pretese. Nel processo penale il PM esercita, fra le altre, la pretesa punitiva che è ricollegata al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, pretesa che consiste nel vedere affermata la responsabilità penale di chi, sottoposto a regolare processo, sia riconosciuto colpevole. Nell’ esercizio di tale pretesa è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale al PM la funzione di organo teso a realizzare gli interessi generali della giustizia.
L’imputato esercita invece la pretesa, costituzionalmente garantita dal principio di personalità nella responsabilità penale e da quello di irretroattività della legge penale, di vedersi riconosciuto innocente, attraverso gli strumenti -anch’essi rafforzati dalla previsione della Carta-della difesa assicurata in ogni stato e grado del procedimento anche ai non abbienti, fino al riconoscimento del diritto alla riparazione degli errori giudiziari.
La legge n. 46/2006 ha abolito le facoltà di appello per le Parti a fronte delle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario o abbreviato: ciò significa per il PM non poter più impugnare decisioni che lo vedono soccombente rispetto alla sua fondamentale pretesa nel processo, cioè quella di vedere punito, quale finale conseguenza dell’ esercizio dell ‘azione penale, il responsabile di un reato, tale ritenuto secondo un regolare processo.
L’imputato con la riforma, invece, rimane pienamente titolare -in virtù del principio costituzionale del diritto alla difesa- del potere di impugnare la decisione giurisdizionale che lo vede soccombente rispetto alla sua pretesa di vedersi riconosciuto innocente.
E’ evidente che la riforma sottrae solo ad una parte (P.M.) uno strumento processuale per vedere affermata nel giudizio la sua fondamentale pretesa, che trova legittimazione costituzionale così come quella dell’imputato. Ciò viola direttamente il principio sancito dall’art. 111.2 Cost. che prevede che il processo (in tale dizione ricompresi indifferentemente quello civile e quello penale) si svolga in condizione di parità di tutte le parti, cioè in una condizione di diritto che assicuri a ciascun soggetto processuale eguali strumenti per raggiungere gli obiettivi suoi propri.
Lo squilibrio fra le parti creato dalla riforma non appare ragionevolmente accettabile tenendo conto dei criteri che la stessa Corte Costituzionale ha più volte ribadito.
Si è detto infatti che se è vero che non esiste una perfetta simmetria ed equivalenza costituzionale fra esercizio dell’azione penale e diritto alla difesa, è altrettanto vero che sarebbe censurabile sotto il profilo della ragionevolezza la legge ordinaria che, sbilanciando fra di loro le facoltà attribuite alle parti del processo, rendesse di fatto il potere del P.M. inidoneo all’assolvimento del compito che gli assegna l’art. 112 Cost.
Con la L. 46/06, il legislatore ha di fatto sottratto al PM il fondamentale strumento del nuovo giudizio di merito per vedere riconosciuta la fondatezza della sua pretesa punitiva, mentre ha lasciato tale strumento alla Difesa ai fini della sua pretesa di veder riconosciuta l’innocenza dell’imputato.
Nella nostra Costituzione non è prevista la indispensabilità di un secondo giudizio di merito; ma, si è osservato, essa discenderebbe dall’art. 2 del VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che al suo primo comma sancisce il diritto di “ogni persona dichiarata rea da un tribunale .di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da un tribunale della giurisdizione superiore”; senonchè è quella stessa fonte internazionale a prevedere che un secondo grado di merito sia fisiologicamente ammesso anche a favore dell’Accusa, se è vero che il secondo comma del medesimo articolo prevede esplicitamente la condizione di chi sia stato condannato “a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento”.
E’ pur vero che la medesima riforma restringe rispetto al passato i casi di appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte dell’imputato (nel senso di escludere oggi l’appellabilità di sentenze di proscioglimento perchè il fatto non costituisce reato, o perchè non è punibile o perchè non è procedibile, fattispecie che si verifica proprio nel presente processo ove entrambi gli imputati hanno proposto appello contro la sentenza del Tribunale di Pinerolo), ma è del tutto evidente che tale restringimento non opera con la stessa ampiezza e radicalità utilizzate per escludere tout court il potere d’appello del PM innanzi a qualunque sentenza di proscioglimento.

E’ altrettanto vero che altre riforme hanno già nel corso del tempo ristretto le facoltà processuali del PM rispetto a quelle riconosciute all’ imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio di costituzionalità della Corte: è qui il caso di richiamare la formulazione dell’art. 443.3 c.p.p. (che esclude la possibilità di appello da parte del PM della sentenza di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, anche dopo l’eliminazione del presupposto del consenso del PM al rito ex L. 479/99) ritenuta in linea con la riforma costituzionale dell’art. 111 dalla Corte Cost. con ordinanza 421/2001.
Ma i motivi che la Corte aveva posto a fondamento della propria pronuncia non appaiono estensibili anche alla riforma attuale.
Nel confermare che la Costituzione, prevedendo la parità di PM e imputato nel processo, non intende attribuire loro necessariamente identità di poteri processuali, la Corte ha però ribadito che un’eventuale disparità di trattamento si giustifica e discende ragionevolmente dalla peculiare posizione istituzionale del PM e dalle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, prima fra tutte quella costituzionalmente prevista della ragionevole durata del processo che, proprio nel giudizio abbreviato, trova attuazione nel senso di semplificare l’istruttoria con l’ utilizzo immediato di tutto il materiale probatorio raccolto dal PM senza il contraddittorio cui esplicitamente l’imputato rinuncia. Ed è allora proprio la rinuncia da parte dell’imputato ad un altro dei principi cardine del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) a giustificare l’asimmetria che l’art. 443.3 cpp produce nel sottrarre al PM la facoltà di appellare la sentenza di condanna a seguito di abbreviato. Alle considerazioni già svolte dalla Corte può aggiungersi poi la constatazione che il restringimento delle facoltà di appello per il PM in caso di abbreviato aveva pur sempre come presupposto l’avvenuta pronuncia di una sentenza di condanna, che comunque è realizzazione del principio dell ‘obbligatorietà dell’azione penale.
Totalmente differente è la situazione di diritto in cui si cala la riforma di cui al L. 46/06
Innanzi tutto qui al PM è sottratta la possibilità di appellare contro sentenze di proscioglimento dell’imputato, decisioni che costituiscono la radicale negazione della pretesa punitiva da lui impersonata per conto dello Stato. Nell’ipotesi di cui all’art. 443.3 cpp, egli si era invece solo visto frustrare nella pretesa di vedere accolta la sua richiesta di quantificazione della pena da comminare al reo, che non è pretesa di rango costituzionale e che dunque può ben soccombere innanzi all’esigenza costituzionale di brevità del processo.
In secondo luogo la riforma si applica indifferentemente a tutti i tipi di giudizio (abbreviato o ordinario che siano e persino contro le sentenze emesse ex art. 428 cpp, laddove il patrimonio probatorio valutabile non è neppure definitivamente stabilizzato ed è solo prospetticamente valutato). Non vi è alcuna giustificazione della nuova asimmetria, dunque, riconnessa a istituti deflattivi in cui rinunce dell’imputato comportino il risultato apprezzabile della definizione più sollecita del processo.
E’ anche vero che una parte della dottrina processual-penalistica ha da tempo auspicato il superamento del principio di perfetta parità delle parti nel processo, riconoscendo all’imputato condannato in primo grado sempre il diritto a veder la sua posizione rivalutata da un tribunale di seconda istanza e ritenendo invece che la pretesa punitiva dello Stato, esercitata con l’azione penale, possa arrestarsi davanti alla sentenza di primo grado; lo ha fatto sottolineando come la sentenza di primo grado sia ordinariamente frutto della diretta raccolta da parte del Giudice delle prove in contraddittorio mentre quella d’appello è il risultato di una mera verifica critica degli atti già raccolti e tenendo anche in conto il nuovo precetto costituzionale della ragionevole durata del processo. Tale orientamento troverebbe giustificazione nel diverso ruolo esercitato nel processo dal pubblico ministero (parte pubblica dotata di potere) rispetto all’imputato (soggetto privato che subisce il processo), secondo quella stessa sottolineatura che la Corte costituzionale aveva fatto nella sua ordinanza 421/2001 citata.
Senonchè tale auspicata riforma non pare trovare copertura costituzionale nell’attuale formulazione dell’art. 111.2 Costituzione: non vi è dubbio, infatti, che qui il legislatore costituzionale abbia ricompreso nella dizione di parti del processo, cui va riconosciuta in generale condizione di parità, anche il PM, organo cui spetta fisiologicamente nel processo penale l’onere di provare il thema decidendum; aver contestualmente previsto da parte dello stesso legislatore costituzionale, nei commi 3 e 4, una serie di regole di garanzia riguardanti unicamente la posizione dell’imputato (ragionevole durata del processo, informativa sollecita delle indagini, effettivo esercizio del diritto di difesa che trova oggi attuazione anche nel potere di indagine difensiva, inutilizzabilità di accuse non confermate nel contraddittorio) pare dare già risposta adeguata, nel presente assetto costituzionale, alle allegate esigenze di riequilibrio fra i diversi poteri posseduti nel processo da PM e imputato.
Altro argomento che rafforza il convincimento della Corte circa l’incostituzionalità della nuova disciplina sta nella ingiustificata disparità di trattamento che penalizzerebbe il PM nei confronti della Parte Civile impedendogli il mezzo di impugnazione dell’appello quando invece questo è conservato dalla novella per la Parte privata: la riforma, al suo art. 6, ha soppresso l’inciso “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” già contenuto nel testo dell’art. 576 cpp, e ciò non esclude la Parte Civile dal potere di appello, se è vero che la stessa riforma non modifica l’art. 75 cpp che stabilisce il principio del trasferimento dell’azione dal processo civile a quello penale (conservando dunque gli istituti processual civilistici fra cui appunto l’appello) e non modifica neppure l’art. 600 cpp che consente alla Parte Civile di far valere davanti alla Corte d’Appello un subprocedimento che è mera anticipazione del giudizio di merito.
D’altra parte la riforma, sopprimendo l’inciso “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” ha inteso così rispondere alla osservazione critica formulata dal Presidente della Repubblica nel suo rinvio alle Camere del testo originario che aveva appunto lamentato la compressione dei diritti della parte lesa; e dunque va senz’altro riconosciuto che il Legislatore abbia inteso conservare con la riforma alla Parte Civile il potere di impugnare nel merito le sentenze di primo grado.
Dunque: secondo la riforma, l’organo privato d’accusa si vedrebbe riconoscere poteri di impugnazione maggiori rispetto a quelli assegnati all’ organo pubblico di accusa. Ciò lede per irragionevolezza il criterio di parità delle parti nel processo giacchè non è dato comprendere perchè dovrebbero essere maggiormente garantiti i diritti al risarcimento dei danni di una parte privata rispetto a quelli vantati dalla collettività attraverso la pretesa punitiva dello Stato esercitata dal PM in quanto organo teso a realizzare gli interessi generali della giustizia..
Infine, è stato detto che la medesima L. 46/06, modificando la formula di condanna con l’introduzione del presupposto del non travalicamento del ragionevole dubbio, avrebbe di fatto spostato la prospettiva di azione costituzionale del PM il quale oggi, anche in base al principio di non colpevolezza dell’imputato fino alla sentenza definitiva di condanna, dovrebbe prendere atto che una sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado è di per sè rappresentativa di quel ragionevole dubbio che ne impedisce un ribaltamento in forma di condanna.
La Corte non condivide tale impostazione: la stessa Costituzione all’art. 111 stabilisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, e in ciò il nostro sistema processuale si differenzia nettamente da quello anglosassone. Ciò comporta che la portata delle decisioni giurisdizionali non possa essere limitata al mero dispositivo, ma che esso valga solo in quanto supportato da adeguata motivazione. Sicchè il significato del concetto di ragionevole dubbio non può discendere automaticamente dal semplice dictum della sentenza di primo grado ma deve necessariamente articolarsi e confrontarsi con l’apparato argomentativo che la sorregge. Il che significa proprio riconoscere piena ed attuale dignità alla pretesa del PM di vedere quell’apparato argomentativo sottoposto ad un nuovo esame di merito da parte di un giudice superiore.
La presunzione di non colpevolezza dell’imputato è infine concetto che non confligge affatto con tale impostazione giacchè la pretesa di essere ritenuto innocente fino al giudicato (pronunciato a seguito di regolare processo) non sottrae affatto di per sè alla verifica circa la condivisibilità o meno della decisione assunta dal Giudice di primo grado.

P.Q.M.

Visto l’art. 23 L. 11.3.53 n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 593 cpp (così come modificato dall’ art. 1 della L. 20.2.2006 n. 46) e 10 della medesima legge per violazione degli artt. 3 e 111 Costituzione nei termini e per i motivi esposti. Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, sospende il giudizio in corso e i termini di prescrizione del reato. Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Torino, 17.3.06 IL PRESIDENTE
 
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quisquedepopulo
view post Posted on 31/3/2006, 10:48




CORTE D’ASSISE D’APPELLO di VENEZIA SECONDA SEZIONE Ordinanza 20 marzo 2006
questione di legittimità costituzionale dell’art. 593. 1 e 2 comma c.p.p., nel testo modificato dall’art. 1 della legge n. 46 del 20.2.2006, in riferimento agli artt. 3 e 111.2 Cost., nella parte in cui non consente l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, anche nei casi diversi da quello solo previsto dal secondo comma.





CORTE D’ASSISE D’APPELLO di VENEZIA
SECONDA SEZIONE

La Corte,
composta dai Magistrati

Luigi LANZA Presidente
Carlo CITTERIO Consigliere estensore
Graziano RASCACCI Giudice popolare
Sandro SANDRI “
M.Teresa VIZZOTTO “
Osvaldo ZAUPA “
Enrico GRENDENE “
Sergio DE RIVA “
ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel procedimento a carico di MINCIUNA RUSLAN alias POSTULAKI YURI, n. a Straseni (Moldavia) il 23.6.1980, contumace;

1. Il MINCIUNA è accusato di avere, in concorso con altri, ucciso a sprangate un cittadino italiano e tentato di uccidere un cittadino tunisino, anche rapinato. Con sentenza del 23 maggio - 8 luglio 2005 la Corte d’assise di Verona lo ha assolto da tutte le imputazioni, richiamando anche nel dispositivo i criteri di valutazione della prova di cui al capoverso dell’art. 530 c.p.p.. Il Pubblico ministero, che ne aveva chiesto la condanna all’ergastolo con isolamento diurno, ha proposto un articolato atto di appello nel quale oltre che contestare la logicità delle argomentazioni del primo Giudice, propone deduzioni che dovrebbero sorreggere un apprezzamento di merito del tutto diverso, in particolare sul punto centrale del processo, l’attendibilità da attribuire ai due testi che hanno dichiarato di aver riconosciuto l’imputato come compartecipe dell’aggressione.

Nelle more della trattazione di questo processo in secondo grado è entrata in vigore la legge 20.2.2006 n. 46, che ha escluso il potere della parte pubblica di impugnare con il mezzo dell’appello le sentenze di proscioglimento, salvo il caso qui non pertinente della prova nuova scoperta nel periodo che va dalla deliberazione della sentenza di primo grado alla scadenza del termine per impugnare, così innovando l’art. 593 c.p.p..

Tale legge ha pure espressamente disciplinato il regime transitorio, differentemente da quanto era accaduto con la provvisoria precedente modificazione introdotta allo stesso articolo 593 c.p.p. dall’art.18 legge 24.11.1999 n. 468, prevedendo al primo comma dell’art. 10 l’applicazione anche ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, e quindi prevedendo ai commi 2 e 3 le modalità della dichiarazione di inammissibilità degli appelli avverso le sentenze di proscioglimento non definiti, e una sorta di restituzione nei termini per proporre, in tali casi, il ricorso per cassazione.
Oggi questa Corte distrettuale dovrebbe pertanto deliberare l’ordinanza di inammissibilità di cui al secondo comma dell’art. 10.

La parte pubblica ha tempestivamente depositato memoria con cui chiede sia sollevata la questione di legittimità del nuovo testo dell’art. 593 c.p.p. e della disciplina transitoria, con riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost.. Oggi le parti hanno concluso come in atti.

2. Poiché la deliberazione di inammissibilità dell’appello costituisce certamente momento di esercizio della giurisdizione, deve prendersi preliminarmente atto della rilevanza della questione nel presente giudizio: la sua decisione, infatti, è idonea ad imporre la cessazione o la prosecuzione di questo specifico processo di appello.

3. Osserva questo Giudice distrettuale che vi è già una giurisprudenza della Corte delle leggi che consente una prima ‘scrematura’ dei possibili punti dell’argomentare tecnico-logico anche riproposto dalla parte pubblica nella sua memoria.

In sintesi, la Corte costituzionale ha finora insegnato che <la diversità dei poteri spettanti, ai fini delle impugnazioni, all’imputato ed al pubblico ministero, è giustificata dalla differente garanzia rispettivamente loro assicurata dagli artt. 24 e 112 della Costituzione>. E anche se <il potere di impugnazione è un’estrinsecazione ed un aspetto dell’azione penale (la cui obbligatorietà è costituzionalmente imposta e quindi garantita dall’art. 112 Cost.), tuttavia è escluso che esso debba configurarsi in modo simmetrico rispetto al diritto di difesa dell’imputato>, perchè <le funzioni (del pubblico ministero) non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all’imputato dall’art. 24 della Costituzione, il quale non riguarda l’organo di accusa>, mentre <solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art. 112 Cost> potrebbe essere censurata per irragionevolezza la configurazione dei poteri del pubblico ministero (Sentenza n.98 del 1994, con riferimento anche alle Sentenze 177 del 1071 e 363 del 1991).

Ancora, la Corte ha ribadito in particolare che <il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale come se di tale obbligo esso fosse - nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell’accusa - una proiezione necessaria ed ineludibile … un’estrinsecazione e una conseguenza necessaria, configurante un nuovo dovere, il dovere di esercitare l’azione penale> (Sentenza n. 280 del 1995, anche con riferimento alla sentenza 177 del 1971). Sia solo consentito osservare che l’affermazione è pienamente condivisibile, laddove altrimenti si dovrebbe necessariamente concludere per la costituzionalizzazione del doppio grado di giurisdizione di merito per la sola parte pubblica, in virtù dell’art. 112 Cost..

Che pertanto né l’art. 3 né l’art. 112 della Costituzione costituiscano, per sé, parametri costituzionali idonei ad imporre l’assoluta omogeneità della disciplina del potere di impugnazione tra la parte privata-imputato e la parte pubblica-p.m. è affermazione/insegnamento che può darsi ormai per acquisito.

Ciò pure dopo la modifica dell’art 111 Cost., perché la stessa Corte costituzionale ha ribadito tale insegnamento anche successivamente a quell’innovazione costituzionale, già con la Sentenza n.115 del 2001 ma specialmente con l’Ordinanza n. 421 del 3 - 21 dicembre 2001.

Con tale ultima pronuncia il Giudice delle Leggi ha espressamente avvertito che <l’attuale secondo comma dell’art 111 Cost, inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999 n.2 - nel conferire veste autonoma ad un principio, quale quello della parità delle parti, pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali - non ha inciso sulla validità dell’affermazione, cui si è costantemente ispirata in precedenza la giurisprudenza di questa Corte, in forza della quale il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: infatti una disparità di trattamento può risultare giustificata … sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia>.

Ciò vale anche, in particolare, per determinati casi di preclusione dell’appello del pubblico ministero, <nella cornice di un sistema nel quale il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale e il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale> (affermazione ormai appunto consolidata; tra le altre, Ordinanze n. 83 del 2002, n.165 del 2003 e n. 46 del 2004).

L’Ordinanza 421/01 attesta quindi un ulteriore contenuto dell’insegnamento ormai costante della Corte delle Leggi sulla materia del potere di impugnazione, che merita di essere ben evidenziato: per nessuna delle parti del processo esiste un diritto al doppio grado di giurisdizione nel merito che abbia fonte costituzionale o internazionale e pertanto che, per sé, giustifichi ed anzi imponga il diverso trattamento delle parti (ciò con riferimento in particolare agli artt. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui alla legge n. 881 del 1977; 5, 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 2 del suo protocollo n 7, che anzi prevede l’espressa possibilità della limitazione del diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale nel caso di condanna che segua una precedente sentenza di proscioglimento).

Altro corollario che emerge dalla richiamata Ordinanza n 421 del 2001 è la reiezione della tesi di chi sostiene che il riferimento alla parità delle parti, introdotto nell’art. 111 Cost., sarebbe limitato al contraddittorio.

Quando infatti la Corte delle Leggi insegna che il principio introdotto nel secondo comma dell’art. 111 è null’altro che la veste autonoma data al principio già pacificamente insito nel sistema dei valori costituzionali (con riferimento inequivoco all’art. 3 Cost. ed alle sue applicazioni anche in materia procedimentale), conferma che quel principio ha ambito assolutamente generale, non limitato alla sola posizione delle parti rispetto al diritto al contraddittorio. Del resto, anche la lettera della norma del comma 2 dell’art. 111 Cost. conferma che la successione delle enunciazioni è successione di diritti distinti e con contenuto differente (il diritto al contraddittorio, il diritto al pari trattamento - nel limite della ragionevolezza già proprio dell’art. 3 Cost. -, il diritto ad avere un giudice terzo ed imparziale - non solo per ciò che attiene il contraddittorio!-).

4. Può quindi esservi un trattamento differenziato tra le parti processuali, con attribuzione di poteri diversi, anche per quanto riguarda specificamente il potere di impugnare, senza che tale diversità, per sé sola, si ponga in contrasto con la Costituzione.

E certamente il parametro costituito dall’art. 112 della Costituzione non fonda, per se stesso, un diritto costituzionalmente garantito o addirittura imposto per riconoscere alla parte pubblica il potere di impugnare sempre e con ogni mezzo possibile, in particolare con l’appello volto ad ottenere un secondo giudizio di merito.

5. L’insegnamento giurisprudenziale della Corte delle Leggi, secondo cui è costituzionalmente ammissibile il trattamento differenziato tra le parti processuali, con attribuzione di poteri diversi anche per quanto riguarda specificamente il potere di impugnare, è stato tuttavia fino ad oggi sempre accompagnato da una fondamentale precisazione e delimitazione: il limite della ragionevolezza con riferimento:
- alla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero
- alla funzione a lui affidata
- ad esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia.

Questi tre parametri - insegnati per la prima volta nella Sentenza 190 del 1970, quando la Corte ha chiarito che, pur agendo a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge, il pubblico ministero di fronte al giudice doveva essere considerato parte, risultando quel suo interesse comunque dialetticamente contrapposto a quello dell’imputato - erano stati individuati come ragioni che giustificavano l’attribuzione di maggiori e comunque diversi poteri alla parte pubblica (nel caso di specie eliminando la preclusione allora vigente per la partecipazione del difensore all’interrogatorio dell’imputato davanti al giudice istruttore, ritenuta non correlata ad alcuno dei tre parametri).

Nella giurisprudenza successiva essi risultano richiamati anche per giustificare, sempre sul piano della ragionevolezza, la contrazione dei poteri del pubblico ministero rispetto a quelli accordati all’imputato, tuttavia sempre precisandosi che la differenziazione di cui volta per volta si trattava doveva trovare giustificazione in un parametro/valore/contesto specifico che desse ragionevolezza alla contingente disparità di trattamento.

L’esame della giurisprudenza anche prima richiamata - se si è riusciti a ricostruirla fedelmente - impone infatti di constatare che ogniqualvolta la Corte delle Leggi ha, fino ad oggi, dichiarato conforme all’art. 3 (e poi anche all’art. 111.2 Cost.) la limitazione del potere di appello attribuito al pubblico ministero, contestualmente non solo ha richiamato in via di principio l’esigenza della ragionevolezza per la differenziazione, ma anche ha ogni volta espressamente indicato la ragione sistematica che nel singolo caso giustificava quella differenziazione.

Ciò è accaduto in tutte le pronunce che hanno respinto le questioni reiteratamente proposte, afferenti i limiti all’appello principale ed all’appello incidentale della parte pubblica avverso le sentenze di condanna conseguenti a giudizio abbreviato.

In sintesi, la Corte costituzionale ha sostanzialmente sempre affermato che quelle limitazioni erano ragionevoli posto che, per contro, vi era l’obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo quel rito alternativo, rito che implicava una decisione fondata, in primis e per scelta dell’imputato, sul materiale probatorio raccolto fuori delle garanzie del contraddittorio dalla parte che subisce poi la limitazione (ex plurimis, Ord. 421/2001).

Non sembra esistere pertanto ad oggi un’affermazione/insegnamento della Corte delle Leggi che possa essere invocato per affermare esservi già nel sistema il principio della conformità a Costituzione di una disparità di poteri basata sulla mera diversa qualità della parte pubblico ministero o imputato.

Anzi, potrebbe paradossalmente concludersi che, allo stato, vi è l’affermazione di un principio opposto; perché altrimenti risulterebbero superflue e irrilevanti le argomentazioni finora utilizzate dalla Corte per dare compiuto e specifico conto, appunto volta per volta, del peculiare contesto procedimentale che, solo, rendeva razionale la differenziazione sottoposta al suo contingente esame.

Approccio e fatica motivazionale che sarebbero stati del tutto inutili, ove la mera diversa qualità (l’uno imputato, l’altro parte pubblica) avesse, per sé, giustificato la disparità di trattamento.

6. Tutto questo spiega perché, per adempiere all’obbligo di valutazione che è riservato a questo Giudice di appello, quello della non manifesta infondatezza della questione proposta, occorra verificare la sussistenza di ragioni che rendano palesi la ragionevolezza del nuovo intervento legislativo, laddove ha eliminato il potere di appello del pubblico ministero, al di fuori del limitato ed invero eccezionale caso di una prova nuova e decisiva che venga scoperta nel limitatissimo tempo intercorrente tra la deliberazione della sentenza di proscioglimento e la scadenza del termine per impugnare.

6.1 Sembra a tale scopo corretto e doveroso muovere dalla fonte costituita dal testo integrale della Relazione sulla proposta di legge n 4604-C, allegata al verbale della seduta 30.1.2006.

Dando anche conto dei rilievi sul punto contenuti nel messaggio del Capo dello Stato alle Camere del 20.1.2006, le ragioni giustificanti la nuova disciplina sembrano potersi riassumere nei seguenti argomenti:
- la giurisprudenza costituzionale;
- la riconducibilità del solo appello dell’imputato contro una sentenza di condanna ad un diritto di rilevanza costituzionale (il diritto di difesa);
- l’impossibilità di riconoscere dignità costituzionale all’eventuale intento di ottenere pervicacemente una sentenza di condanna nei confronti di un soggetto già riconosciuto innocente al termine di un processo regolare;
- l’introduzione, con la nuova legge, del principio del ragionevole dubbio come impedimento della sentenza di condanna, e la conseguente impossibilità di negare tale ragionevole dubbio quando, per lo stesso fatto e per le stesse prove, l’imputato sia già stato giudicato innocente da un giudice, specialmente quando la riforma possa avvenire da parte di un giudice di appello che valuta solo sugli atti, a fronte di una sentenza di primo grado emessa da un giudice in presenza del quale le prove si sono formate.

La relazione spiega poi che l’eccezione relativa alla prova nuova sopravvenuta è stata giustificata da <ragioni di giustizia sostanziale> mentre il mantenimento del potere di impugnare le sentenze di condanna, da parte del pubblico ministero, è giustificato dal fatto che pur con soccombenza parziale la questione della colpevolezza è risolta nel senso positivo.

Orbene, sui punti del contenuto attuale della giurisprudenza costituzionale sulla questione e della mancata costituzionalizzazione del doppio grado di giurisdizione di merito per entrambe o anche una sola delle parti si è già detto.

Gli argomenti sulla sofferenza che il processo penale impone e sulle implicazioni del principio dell’ ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ provano invece, come suol dirsi, ‘troppo’. E’ infatti ben vero che il processo penale è comunque già in sé una sofferenza (anche per i notevoli costi economici che impone); ma il sistema previsto ora dal Legislatore finisce con il comportare un aumento dei gradi di giudizio ed un aumento dei suoi costi (di sofferenza e finanziari), laddove rispetto ad una serie <primo grado – appello – cassazione>, si indica in alternativa quella <primo grado – cassazione – ulteriore primo grado – appello – cassazione>.

E se fosse condivisibile l’assunto sugli ‘inevitabili’ effetti di una prima assoluzione in relazione al nuovo operare del principio dell’ ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, l’unica soluzione coerente sarebbe quella di limitare ogni ulteriore seguito del processo al solo ricorso in cassazione per violazione di legge, che non può essere evitato solo perché imposto dal penultimo comma dell’art 111 Cost..

Il nuovo sistema, invece, mantiene integra la possibilità di una diversa decisione di merito, sulla base delle stesse prove e per i medesimi fatti, solo modificando come visto il percorso procedimentale.

E’ poi vero che l’attuale struttura del giudizio di appello risente dell’originaria incapacità del legislatore del 1989 di adeguare questo grado di impugnazione di merito ai mutati principi del processo in primo grado. Oralità ed immediatezza per il primo grado, tendenzialmente “carta” per il giudice d’appello (ancorché, va opportunamente evidenziato, il problema si pone solo per i processi che in primo grado sono stati celebrati con il rito dibattimentale, poiché per quelli svoltisi con rito abbreviato il comune confronto con le stesse carte processuali priva di significativo rilievo l’osservazione, sicchè l’osservazione stessa non ha comunque una valenza generale).

Si tratta però di un’incongruenza strutturale che sussiste anche nel caso di riforma con accoglimento dell’appello dell’imputato, senza che possa qui invocarsi il principio del favor rei, che attiene solo alla valutazione della prova e non anche alla possibilità di utilizzare a proprio favore delle eventuali disfunzioni della procedura, comuni e generalizzate.

La discussione parlamentare sulla legge 46/2006 ha pure sfiorato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’esigenza della cosiddetta ‘doppia conforme’: tesi per cui non si potrebbe essere condannati se non a seguito di due conformi sentenze di merito, per dar modo all’imputato di non trovarsi ‘spiazzato’ da una sentenza di condanna che intervenga per la prima volta in grado di appello, quando pertanto non è poi più possibile controbattere eventuali nuovi apprezzamenti di stretto merito contenuti nella sentenza di prima condanna.

Sul punto deve tuttavia osservarsi:
a) che la stessa giurisprudenza di legittimità che ha posto il problema ha contestualmente indicato una soluzione tendenzialmente efficace (le memorie integrative della motivazione della sentenza assolutoria, anche a fronte degli argomenti contenuti nell’appello della parte pubblica; il riferimento è a Cass. S. U. 45276/2003);
b) che il nuovo ricorso per cassazione consente alla parte l’introduzione nel giudizio di legittimità di valutazioni che necessariamente coinvolgono apprezzamenti sull’adeguatezza del quadro probatorio;
c) che la soluzione propugnata dalla maggior parte dei sostenitori della cd ‘doppia conforme’ non era tanto l’abolizione dell’appello del pubblico ministero quanto piuttosto l’attribuzione al giudice di appello, che condividesse la fondatezza delle censure di merito contenute nell’appello avverso la sentenza di proscioglimento, del potere di annullare quella prima sentenza indicando al nuovo primo giudice i criteri di valutazione probatoria pertinenti. Il tutto, si noti, con un contestuale indispensabile intervento sul regime della prescrizione.

Insomma, in tutti i casi si trattava di soluzioni che consentivano la permanenza per entrambe le parti del doppio grado di apprezzamento del merito e che, ciò che qui rileva, attestavano come la soluzione dell’abolizione del potere di appello del pubblico ministero non fosse la soluzione necessitata per salvaguardare gli interessi della parte privata ritenuti meritevoli di ulteriore tutela nella discrezionalità legislativa.

Da ultimo, nel medesimo dibattito parlamentare si è indicata la ritenuta positiva conseguenza della riduzione dei tempi del procedimento penale, affermandosi che l’abolizione del grado di appello, consentendo una più ravvicinata conclusione del processo, rispondesse anche al principio di ragionevole durata. Sul punto tuttavia deve richiamarsi l’osservazione già svolta: in realtà, avendo lasciato al pubblico ministero la possibilità di ricorrere per cassazione, e con un ricorso ‘allargato’, i tempi complessivi del processo di fatto dovrebbero allungarsi, specialmente nei casi di accoglimento del ricorso con conseguente ripresa del processo dal nuovo giudizio di primo grado.

6.2 Giudica allora questa Corte distrettuale veneta che dal dibattito parlamentare non emergano ragioni sistematiche che possano costituire evidenti argomenti a favore della ragionevolezza dell’esclusione del potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento.

Ed è tale aspetto che induce questa Corte serenissima a valorizzare e riconsiderare il senso ultimo del messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere.

Non è infatti tanto la forte contrazione del potere di impugnazione del pubblico ministero, in sé e per sé, che pone problemi di costituzionalità. Sono la disorganicità e l’asistematicità della riforma approvata che finiscono con l’incidere sulla mancanza di evidente ragionevolezza della soluzione radicalmente discriminatoria adottata, impedendo di individuare con immediata evidenza un equilibrato, ponderato e “ragionevole” regolamento degli interessi contrapposti. Tali sono quello dell’imputato a difendersi e non essere <pervicacemente> e inutilmente sottoposto al peso del processo, ma anche quello della collettività e della vittima del reato - il cui stesso potere ex art. 572 c.p.p. risulta corrispondentemente e sintomaticamente vanificato - al perseguimento di una decisione finale che elida il più possibile la ‘forbice’ tra verità processuale e verità sostanziale, in un contesto di ragionevole durata ed efficienza del processo, esso stesso autonomamente bene di rango costituzionale, come più volte insegnato dalla Corte delle Leggi (per tutte, Sent. n. 353 del 1996).

Né si ritiene di poter individuare nel contesto normativo più recente ragioni sistematiche a sostegno di questo differente trattamento. Paradossalmente potrebbe affermarsi che vi sono indicazioni normative in senso contrario:

a) con la legge n. 251 del 2005, ed in particolare con le modifiche agli artt. 157, 160 e 161 c.p., sono stati ridotti i termini della prescrizione per numerosi reati della ‘fascia’ con pena temporalmente intermedia, il che riduce obiettivamente la possibilità di giungere ad una sentenza definitiva di merito, e non in rito, all’esito del percorso previsto ora dal Legislatore nel caso di un’impugnazione del pubblico ministero, avverso la sentenza di proscioglimento, che risulti fondata;

b) se il Legislatore intendeva perseguire la regola, o la ratio, della “doppia conforme”, sarebbe priva di giustificazione la permanente possibilità che, attraverso l’operatività dell’art. 580 c.p.p., possa tuttora verificarsi il caso di una condanna che intervenga per la prima volta in grado di appello, quando ad esempio di due coimputati nel medesimo reato uno sia stato prosciolto e venga fatto oggetto di ricorso in cassazione del pubblico ministero, l’altro sia stato condannato e abbia proposto appello, se il giudice di appello ritenesse fondato il motivo di ricorso originariamente proposto dalla parte pubblica. In tal caso, in altri termini, la possibilità o meno di avere una doppia pronuncia di merito sulla condanna dipenderebbe dalle autonome scelte del coimputato; a maggior ragione ove si dovesse ritenere tuttora possibile l’appello della parte civile (o quando, più adeguatamente, questo dovesse essere reintrodotto dall’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’avvenuta esclusione del relativo potere); ciò, in un contesto processuale complessivo dove la separazione delle posizioni dei coimputati, per scelte meramente procedurali discrezionali dei singoli, è ormai la regola generalizzata;

c) si è abolito il potere di appello del pubblico ministero per le sentenze penali del giudice di pace (e tuttavia, e significativamente quanto alla disorganicità dell’approccio legislativo, solo a seguito del rilievo del Capo dello Stato), ma contestualmente con altra recentissima norma (artt. 26 e 27 d.lvo 40/2006) il Legislatore ha introdotto con la modifica dell’art. 23 della legge 689/81 il doppio grado di merito avverso le sentenze del giudice di pace in materia di sanzioni amministrative, con la conseguenza obiettivamente singolare, sul piano della coerenza sistematica e dei valori del sistema giurisdizionale, che mentre nel caso di illecito penale la parte pubblica (lì il Pm) non può chiedere il secondo giudizio di merito, ciò può fare (qui l’Amministrazione) nei casi di illeciti depenalizzati;

d) non sembra poi estranea al tema della ragionevolezza la considerazione del fatto che i processi di primo grado sono oggi per la maggior parte attribuiti al giudice monocratico; il più delle volte in udienza non vi è il pubblico ministero che ha deciso per l’esercizio dell’azione penale; spesso giudicante e o pubblico ministero di udienza sono magistrati onorari; nei processi per reati di competenza della corte d’assise (dove frequentemente l’alternativa decisionale è tra l’assoluzione e la condanna a pena elevatissima) il rito abbreviato si svolge davanti ad un giudice monocratico che giudica sulle carte. E’ vero che si tratta di situazioni che per lo più attengono ad un contesto di fatto; ma l’efficienza del processo (rispetto agli scopi che ad esso attribuiscono i principi costituzionali) è stata più volte riconosciuta bene costituzionale, mentre il contesto concreto in cui la Giustizia è amministrata e realizzata non pare francamente possa costituire aspetto totalmente estraneo alla ragionevolezza delle scelte legislative (non parrebbe ardito richiamare qui, per esemplificare il senso dell’osservazione che precede, la relazione tra il primo ed il secondo comma dell’art. 3 Cost.);

e) da ultimo, sembrerebbe che la stessa recente Riforma dell’Ordinamento giudiziario guardi obiettivamente con sfavore al giudice che esercita le funzioni in primo grado, avendogli inibito ogni possibilità di accesso diretto a qualsiasi incarico semidirettivo e direttivo.

7. Orbene, quando il parametro della valutazione di conformità ai principi ed alle norme costituzionali è quello della ragionevolezza, individuare il punto che separa la legittimità (appunto la conformità alla Costituzione) dall’apprezzamento di merito (estrinsecazione del potere di discrezionalità proprio del Legislatore) è istituzionalmente delicato e oggettivamente difficile.

Sul contenuto del giudizio di ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. è certamente prezioso l’insegnamento contenuto nella Sentenza della Corte costituzionale n. 89 del 1996, secondo cui <la disamina della conformita' di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul "perche'" una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo. Il giudizio di eguaglianza, pertanto, … e' in se' un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformita' tra la regola introdotta e la "causa" normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa e' chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sara' la stessa "ragione" della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza>. E quanto in particolare alle soluzioni normative che introducono differenti trattamenti < non puo' quindi venire in discorso, agli effetti di un ipotetico contrasto con il canone della eguaglianza, qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorieta' che una determinata previsione normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire, giacche', ove cosi' fosse, al controllo di legittimita' costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di opportunita', per di piu' condotta sulla base di un etereo parametro di giustizia ed equita', al cui fondamento sta una composita selezione di valori che non spetta a questa Corte operare. Norma inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si sovrappongono, dovendosi il sindacato arrestare in presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di rinvenire, nella "causa" o "ragione" della disciplina, l'espressione di una libera scelta che soltanto il legislatore e' abilitato a compiere>.

Proprio la ‘delicatezza istituzionale’ della valutazione sulla sussistenza di un contesto di ragionevolezza, che renda conforme a Costituzione l’abolizione per una sola delle parti processuali della possibilità di appellare la sentenza che ha respinto la propria domanda, tenuto conto del principio della parità tendenziale delle parti nel processo (principio che va necessariamente inteso con riferimento alla pronuncia finale-conclusiva sulla propria domanda), impone al giudice ordinario di limitarsi strettamente all’aspetto dell’eventuale manifesta infondatezza della questione proposta.

Giudica in proposito e conclusivamente questa Corte d’Assise d’Appello, nella pienezza della sua espressione collegiale, che:
I) non si rinvenga allo stato la possibilità di sussumere nella precedente giurisprudenza della Corte costituzionale - tenuto conto dei casi, dei contesti procedimentali e delle argomentazioni che hanno sostenuto le varie decisioni – la ‘copertura’ della scelta fatta dal Legislatore;
II) non si rinvengano nelle argomentazioni addotte nel corso del dibattito parlamentare assorbenti considerazioni univocamente attestanti tale ragionevolezza;
III) non si rinvengano, dall’esame intrinseco della nuova normativa ed alla luce degli orientamenti dell’ultima legislazione in qualche modo utilizzabili come manifestazione di scelte di valore sistematicamente rilevanti, autonome considerazioni per sé manifestazione della ragionevolezza.

E’ quindi indispensabile sottoporre la questione alla Corte costituzionale, perché esprima quel giudizio sulla ragionevolezza di questa nuova, diversa e radicale discriminazione tra i poteri attribuiti alle parti, che la Costituzione le riserva.

Va pertanto dichiarata, oltre che rilevante nel presente giudizio per quanto prima argomentato, non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 593, primo e secondo comma, nel testo introdotto dall’art. 1 della legge n. 46 del 20 febbraio 2006, nella parte in cui non consente l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, con riferimento agli artt. 3 e 111.2 Cost., anche nei casi diversi da quello solo previsto dal secondo comma.

La soluzione richiesta alla Corte delle Leggi appare priva di alcun contenuto discrezionale, ed imposta dal sistema: ove la Corte adìta dovesse ritenere l’irragionevolezza dell’attuale disciplina, sembra infatti imporsi l’integrale ripristino del precedente potere, libero poi rimanendo il Legislatore di intervenire con ulteriori modifiche rispondenti a ragionevolezza sistematica.

Valuterà eventualmente la Corte adìta le implicazioni della proposta questione di legittimità costituzionale, sulla disciplina transitoria di cui all’art. 10 commi 1 e 2, nella parte in cui rende applicabile ai processi in corso la nuova disciplina, ai sensi dell’art. 27 seconda parte legge 11.3.1953 n. 87.

Devono essere adottati i provvedimenti ordinatori di cui al dispositivo.


P.Q.M.

Visto l’ art. 23 della legge n. 87 dell’11.3.1953,

dichiara rilevante nel presente giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 593. 1 e 2 comma c.p.p., nel testo modificato dall’art. 1 della legge n. 46 del 20.2.2006, in riferimento agli artt. 3 e 111.2 Cost., nella parte in cui non consente l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, anche nei casi diversi da quello solo previsto dal secondo comma.

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

Sospende il presente processo.

Ordina che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza sia notificata all’imputato contumace, al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Letta in pubblica udienza, alla presenza del Procuratore generale e del Difensore dell’imputato.

Venezia-Mestre, aula bunker, li 20. 3. 2006

Il Cons. est. Il Presidente
dr. Carlo Citterio dr. Luigi Lanza


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