Ken il Guerriero - Hokuto No Ken.it

FIST OF THE RISING SUN, la (mia) storia del 65esimo successore

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view post Posted on 14/3/2020, 22:08     +1   +1   -1

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CAP 1 - IL RAGAZZO SENZA VOLTO

La tempesta soffiava impietosa facendo risuonare gli edifici, quasi che la cittadina fosse uno strano strumento di legno e sabbia. Sulle baracche di lamiera e vecchie assi consunte pendeva minacciosa una torre del Mondo Scomparso, un rudere di cemento che sembrava ondeggiare al vento e voler cadere da un momento all’altro. La ragazza lo scrutava, impensierita.
«Prendiamo riparo» disse il ragazzo dietro di lui.
«E’ peggio di ieri».
«Appunto per questo».
«Se continuiamo a perdere giorni qui…»
«Se invece più la tempesta peggiora più ci addentriamo nella Landa, invece?»
«…hai ragione» sbuffò lei.
«Là c’è una specie di locanda».
«Hai promesso che non bevevi».
«Ma quando?»
Entrarono entrambi, scrollandosi la sabbia di dosso. Il locale sembrava un saloon di trecento anni prima, solo più polveroso e deserto.
«Ehilà?»
Un uomo di mezz’età scese dal soppalco, camminando svogliato sulle scale scricchiolanti.
«Salve, viaggiatori. Qualcosa da bere?»
Il ragazzo aveva una montagna di capelli arruffati, candidi come la neve, a incorniciare un viso vagamente femmineo e due occhi affilati. Tra i pantaloni neri e la casacca bianca consunta, c’era una larga bandana che si arrotolava attorno alla vita, di nero e rosso sangue ricamati d’avorio. In tutta evidenza era un segno di appartenenza a qualcosa, non solo un indumento.
«Da dove venite?» fece l’uomo cambiando tono di voce, come a ritirare l’offerta di bere qualcosa, appena ebbe squadrato il ragazzo.
«Sembra uno di quei posti dove gli alcolici hanno ancora un nome?» chiese lui con una nota d’entusiasmo «Posso vedere quella bottiglia lì?»
«Da. Dove. Venite» ripetè l’uomo.
«Qualche problema?» fece la ragazza, appoggiandosi sul banco.
Era bassa, con delle forme abbondanti tenute ben strette dall’abbigliamento di jeans e un corpo molto allenato. I capelli castani, un taglio laterale un po' arruffato sulla destra, avevano delle punte schiarite di biondo.
«Al giorno d’oggi i ragazzi emulano ancora i selvaggi di vent’anni fa?» chiese l’uomo di rimando «Da come siete vestiti, sembrate dei predoni».
Il ragazzo rise appena.
«Non ci sono più predoni, dovresti saperlo» obiettò la ragazza.
«Qualche pazzoide si trova ancora. E voi siete vestiti in modo appariscente».
«Appariscente?» fece lei appoggiando le mani al tavolo.
Aveva due guanti da lotta, uno rosso ornato di stelle bianche, l’altro a righe blu e bianche. L’uomo indicò i guanti con lo sguardo.
«Siete di una banda, sono sicuro. Bè» proseguì alzando le braccia «qui ci sono solo io. Non intendo stare a qualche giochetto sadico, quindi prendetevi quello che volete e sparite».
«Non me lo farò ripetere» disse il ragazzo scavalcando il bancone.
«Smettila!» sbottò la ragazza.
«Non si discute con la fortuna, no?» rispose lui, prendendo una bottiglia in mano.
«Sì, fate come vi pare» commentò l’uomo a denti stretti «La giustizia dell’Imperatrice non può certo arrivare ovunque. Ma arriva, prima o poi. Vi consiglio di sbrigarvi a lasciare la città prima della tempesta».
La ragazza batté il pugno sul tavolo.
«La giustizia dell’Imperatrice, eh?»
«Vi credete onnipotenti, eh? Ma un giorno-»
«La giustizia dell’Imperatrice sono io, vecchio babbeo» interruppe lei.
«Oh, ma scusa, così rovini tutto il divertimento» sbuffò Nero, posando la bottiglia e prendendone una diversa.
«Ma che…?»
«Mi chiamo Aska, Esecutrice Imperiale numero 13».
«Gli Esecutori vanno in giro con cappucci a punta e le falci… credo».
«Ora chi è che è rimasto a vent’anni fa?»
«E vorresti dirmi che anche quello è un Esecutore?»
«Ma neanche per idea» chiarì il ragazzo.
«No, ehm… lui è… un mio assistente».
Il ragazzo scavalcò il bancone con due bottiglie in mano, sussurrando: «Ma senti che roba».
«Non credo a una sola parola» insistette l’uomo «e il tuo “assistente” sta prendendo senza pagare».
«Senti, amico, dovresti ringraziare che As- che l’Esecutrice, qui, non ti porta via in catene. Prendere due bottiglie come oblazione è-»
«Ma quale oblazione! Paga subito quello che bevi!»
«Ma non ho ancora bevuto nulla!»
«Ma intendi farlo!»
«E da quando si pagano le intenzioni?»
«Avevi detto che non avresti-»
«Basta!» urlò il ragazzo poggiando una delle due bottiglie sul bancone «La tempesta è meglio! Stacci tu, sottovento, rompipalle! Non bevo, così non devo sentirti!»
«Allora perché non hai posato anche l’altra bottiglia? Devi bere per forza, vero?»
Il ragazzo guardò la bottiglia che aveva in mano, poi lei.
«Non voglio mentirti».
«Quindi?»
«Quindi niente, non voglio mentirti» ripetè lui allegro, alzando le spalle.
Uscì prima che Aska mettesse insieme due parole.
«Ma chi siete? Sembrate due pazzi».
«Ti ho già detto chi sono, mi pare».
L’uomo alzò le spalle.
«Quanto… quanto costa la bottiglia che ha preso il mio amico? Cioè, il mio assistente?»
«Non ha importanza. Sono qui solo per bellezza, la maggior parte delle bottiglie contiene benzina».
«Oh».
«Dovresti dirglielo».
«Niente affatto» corresse lei con un sorrisetto.
L’uomo alzò le spalle: «Cosa fa una… Esecutrice …in questo villaggio?»
«L’Imperatrice ha richiesto di ritrovare una persona».
«…una persona?»
«Ma non è in questo villaggio, comunque. Dovevamo andare al Bosco di Ryuroh, a venti miglia a ovest… la tempesta ci rallenta».
«Il… Bosco di Ryuroh…»
L’uomo rimase assorto per qualche minuto. Poi iniziò a cercare qualcosa sotto il banco e infine mise due bicchieri davanti ad Aska e vi versò dentro un liquido color miele.
«E’ alcol?»
«Non è del vecchio mondo. E’ idromele. Viene dal Bosco di Ryuroh, per l’appunto».
«Dunque è vero. Ci sono api anche ad ovest».
«Fortunatamente, sì».
«L’Imperatrice si è impegnata duramente per portare qui api dalle Terre Verdi. Sembra incredibile pensare che in tutta l’Estasia presto potrebbe tornare una vegetazione normale».
«Già, davvero incredibile. Mio padre piangerebbe, a saperlo» rammentò l’uomo con nostalgia.
Aska sorseggiò l’idromele con un certo piacere.
«L’Eurasia invece?»
«Lì l’acqua ribolle ancora. Ci vorrà un secolo perché torni vivibile quella terra».
L’uomo annuì.
«L’Oceania?»
«Deserto. Sabbia e cenere e polveri tossiche, che non danno frutto».
«Ma se l’Imperatrice provasse a-»
«Le Terre Verdi non sono un pozzo senza fondo da cui prendere quanto ci pare. E non sono neanche così disabitate come sembravano».
«Ah no?»
«Non so come si chiami l’antica cultura che vi abita… mari… mori… maori… qualcosa come… ma non conta. Comunque non possiamo rubare tutto quello che possiamo e fregarcene. E’ difficile commerciare laggiù e l’Imperatrice precedente ha fatto molti sforzi per creare una convivenza pacifica. Sputeremmo sulla sua eredità se…»
«Dico solo che le nostre attuali tecniche di coltivazione…»
«Ripeto, l’Imperatrice non può prendere a man bassa dalle Terre Verdi per provare a piantare ortaggi nella polvere avvelenata finché contro ogni logica non cresce qualcosa».
L’uomo sospirò, annuendo di nuovo. Si versò un secondo bicchiere, e lo stesso fece per lei. Aska bevve di getto assicurandosi con la coda dell’occhio che bevesse anche l’uomo.
«E’ una fortuna incontrare un’Esecutrice così chiacchierona. Non capita tutti i giorni di poter porre certe domande a chi può rispondere».
«Quello che l’Impero fa, lo fa alla luce del sole» rispose lei, ma per un istante le si incrinò la voce nel pronunciare quelle parole.
«Senz’altro, ma è raro che si abbia il tempo di discuterne».
Ma Aska aveva aspettato proprio quel momento. Che l’uomo si sentisse più in confidenza, che l’alcol gli arrivasse al cervello.
«Prima quando ho nominato il Bosco di Ryuroh… avete esitato»
«Eh? Oh…»
«C’è una ragione?»
«No, io… no».
«Me ne versate un altro? Pago tutto, ovviamente».
L’uomo riempì, come Aska aveva sperato, entrambi i bicchieri. Bevvero entrambi.
«Avete anche provviste? Carne essiccata, ad esempio?»
«Ma certamente. E cavallette».
«Prendo anche le cavallette, certo» annuì, mettendo le mani nella borsa «ho dei semi di ottima qualità. Ma posso barattare anche in metalli».
«Va bene tutto».
Aska si accorse che la voce era un po' più incrinata dall’ebbrezza. Tornò alla carica.
«E’ strano che ci abbiate scambiato per predoni, comunque. Non se ne vedono da un po', come dite voi stesso».
L’uomo glissò totalmente: «Se continua con questa tempesta, i raccolti potrebbero soffrirne. Questa sabbia potrebbe venire dal Deserto d’Oceania per quanto se ne sa…»
«Per caso è accaduto qualcosa, al Bosco di Ryuroh?»
«Non vorrei essere nei panni dell’Ispettore Imperiale. Non fa piacere a nessuno sprecare le semenze che…»
Aska gli afferrò la mano con violenza. Adesso aveva uno sguardo del tutto diverso.
«E’ un grave crimine mentire ad un Esecutore. Cos’è accaduto?»
«Lasciatemi!»
«Non è più il tempo dei leoni. Ora è il tempo degli uomini. Dell’ordine».
«Certo, lo so… lasciatemi subito!» disse agitando la mano per liberarla.
«Se un gruppo di criminali ha creato problemi al Bosco, sarebbe molto grave apprendere che un giustiziere qualsiasi li ha uccisi senza arresto né processo. Questo mondo non ha bisogno di altra violenza… non siete d’accordo?»
«Io… lo sono… certamente!»
Lasciò la mano mentre lui strattonava, così che l’uomo cadette indietro.
«Avete saputo di qualcosa?»
Ma l’espressione dell’uomo raccontò ben altro.
«No! Voi c’eravate! Eravate lì!» realizzò lei, sgranando gli occhi.
«No. Sì… io…»
Aska cercò nel borsello un rotolo di carta tenuto da un laccio e glielo aprì davanti.
«Riconoscete questo ragazzo?»
Aveva un viso giovane e forte e, dalle tratteggiature sul ritratto, doveva avere carnagione scura e capelli chiari. Scompigliati in avanti come la criniera di una bestia, cingevano una fronte spaziosa e due grandi occhi scuri. Non era un manifesto di cattura, e non c’era scritto nulla. Il ritratto, anzi, sembrava eseguito con una certa amorevole cura.
«Lo riconoscete?»
«Io…»
Ma accadde quello che Aska temeva di vedere. Le pupille dell’uomo si dilatarono a dismisura, poi divennero due puntini minuscoli, poi tornarono normali.
«No. Non ricordo affatto questo viso».
Aska alzò gli occhi al cielo.
«Ditemi cosa ricordate».
«I ragazzi al Bosco mi hanno pregato di non-»
«Di non tradire un uomo di cui non ricordano il nome né il volto?»
L’uomo la guardò stupito: «Ma come sapete che nessuno di noi-»
«Ditemi solo cosa è successo» ribadì quasi ringhiando.
«Io … ebbene… come volete. Tanto non vi servirà a nulla».
«Lasciatelo decidere a me».
«Avevamo preparato tutto per la festa del raccolto del prossimo mese… poi dalle montagne… si è sentito come un tuono… un boato… sono scesi… loro».
«Loro chi?»
«I cannibali delle montagne… la Famiglia Kiba».
Il bicchiere che Aska aveva ripreso in mano si frantumò tra le sue dita.
«Ancora quei selvaggi bastardi! E’ più difficile farli sparire degli scarafaggi!»
«Sappiamo bene cosa succede a chi cade nelle loro mani… siamo corsi a nascondere le bambine, le ragazze… e ci siamo preparati ad affrontarli».
«E poi?»
«E poi è arrivato un uomo… ma sono sicuro che non avesse quel viso!»
«Come potete esserne sicuro, se non ricordate che viso aveva?»
«Io… non lo so, sono sicuro… che non era lui… credo… io…»
«D’accordo, ho capito. Cosa ha fatto l’uomo?»
Il barista si prese la testa tra le mani, sembrò diventare rosso per lo sforzo.
«Non lo so! Ricordo solo… quei maledetti animali che scendevano verso il villaggio, e poi… poi… l’alba del giorno dopo… ci siamo svegliati».
«Svegliati?»
«Sì… quelli che erano rimasti al villaggio hanno detto… che dormivamo un sonno profondissimo, come bambini».
«E la Famiglia Kiba?»
«Spariti».
«Senza lasciare traccia?»
«Senza lasciare traccia».
Aska guardò in basso, rimanendo a fissare il pavimento.
«Prenderò lo stesso tutto quello che ho chiesto» disse infine.
«Perché non lasciate perdere… l’uomo senza volto?»
«Nessuno è al di sopra della legge» dichiarò lei.
«Un tempo ci sono stati uomini possenti come dei, che erano per forza di cose al di sopra di ogni legge umana. Proprio loro hanno creato quest’epoca per noi…»
«Non loro. Alcuni di loro. Altri avevano ideali ben diversi».
«Ma quest’uomo però…»
«Se le dicessi che è successo altre volte… in circostanze… molto differenti?»
«Che intende?»
«Se le dicessi… che ci sono due villaggi completamente svuotati, senza che si sappia nulla di dove sono finiti i suoi abitanti, e se si trova un testimone dice di ricordare un ragazzo senza un volto. Allora lei… cosa mi direbbe? Chiederebbe comunque all’Impero di non occuparsene?»
L’uomo distolse lo sguardo da quello della ragazza. Sembrava intristito, e Aska capiva bene la ragione. Lei aveva sostituito una diceria incoraggiante e avvincente con un problema concreto, dai tratti decisamente inquietanti.
«Dunque… può ripetermi… cosa vuole prendere?»
Aska uscì dalla locanda. Il ragazzo stava versando il contenuto della bottiglia nel serbatoio del triclomotore.
«Era di buona annata la bottiglia?»
«Fottiti».
«Sembra che la tempesta si sia calmata».
«Hai perso tempo, lì dentro».
«Abbiamo avuto fortuna, pare».
«Non con gli alcolici. Che tipo di fortuna?»
«Quell’uomo… era al Bosco di Ryuroh».
Il ragazzo guardò verso di lei, con sguardo annoiato.
«Sa qualcosa che già non sapevamo?»
«Non direi. Ma sono ancora più convinta ad andare lì».
«Mi domando perché mi faccio coinvolgere in questa scemenza».
«A dire il vero sono io che me lo domando. La vita da pirata non ti soddisfa?»
Il ragazzo ridacchiò appena, gettando la bottiglia: «Chissà, magari ho scoperto di avere mal di mare, che ne sai?»
«Come no. Orka Nera, col mal di mare».
«Mica impossibile. Un sacco di gente non è chi dice di essere».
«Ho preso del cibo».
«Secondo la tua definizione di cibo, immagino».
«Non dubito che se saccheggi un mercantile puoi prepararti pasti migliori, ma sai, se hai il mal di mare poi li vomiti, comunque».
«Infatti. Sono felice che simpatizzi con la mia condizione».
«Di alcolizzato o di canaglia?»
«Si parlava di mal di mare».
«Tu parli di un sacco di cose. Parte, la carretta?»
«Certo che parte».
Aska salì, mentre Orka diede un’occhiata alla ruota prima di sedersi accanto a lei.
«Lo sai» disse Orka passandole una mano sulle cosce e lasciandola risalire «ti sei fatta davvero un bel fisichino in questi tre anni».
Lei gli schiaffeggiò la mano con forza: «E tu sei diventato un bel delinquente in questi tre anni. Tua madre che dice?»
«Chi la vede Leia?» rispose lui massaggiandosi la mano «Ahia… non era questo il tuo atteggiamento due notti fa».
«E quindi? Sarebbe il caso di toccarmi solo quando te lo chiedo».
«Ma cambi idea di continuo!»
«Oh, è così ingiusto! Redarguiscimi con il tuo codice etico da bucaniere. La tua ciurma avrà prodotto molte interessanti riflessioni sulle donne e su come rispettarle. Illuminami pure».
«Niente stupri sulla mia nave» dichiarò lui.
«Questo è chiaramente tutto quel che c’è da sapere sulle donne. Che gentiluomo».
Orka diede una testata al volante: «E se ho te intorno, che la vedo a fare Leia?»
Mise in moto.
«Tua madre. Non Leia».
Orka mimò una espressione quasi sconcertata.
«Come, non Leia? Ero sicuro che fosse lei mia madre».
«Cretino. Voglio dire che -»
«Ma le fai così, certe rivelazioni? E allora di chi sono figlio? La mia vita è un inganno».
«Dico che dovresti chiamarla ma-»
«Oh, ma un cartoccio di cazzi tuoi?» tagliò corto, infine.
«Non lo gradisci? E’ buono sai? Dicono che allunghi la vita».
«Ma vaffanculo».
Il triclomotore partì, sollevandosi dietro una nube di sabbia fine.
«Posso chiederti una cosa?»
«Come, non dovevo farmi un cartoccio di cazzi miei?»
«E piantala. Allora, il tipo lì…»
«Quello che volevi derubare».
«Voglio chiederti se la storia coincide».
«Per sommi capi».
«Dunque non ne ricordava il viso».
«Ricordava di non ricordarlo. Che assurdità».
«E quella arte marziale… può fare questo? Può fare questo… alla mente di un uomo?»
«Altroché» confermò lei «stando ai racconti di zia Mami, anche peggio».
Per un istante Aska vide uno scintillio di ammirazione negli occhi glauchi del ragazzo.
«Orka, perché me lo chiedi?» sussurrò lei con apprensione.
«Così».
Poi, dopo aver riflettuto un attimo, parlò a bassa voce.
«Ryu, sessantacinquesimo successore dell’Hokuto Shinken. Dev’essere proprio … l’uomo più solo sulla faccia della terra».
 
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Cap2: SORGE SEMPRE UNA NUOVA ALBA

«Vorrei barattare» annunciò il ragazzo con calma.
«E cosa?»
«Una zucca del Bosco di Ryuroh… di una nuova varietà».
Poggiò l’ortaggio bitorzoluto sul banco.
«Sei proprio carino» rispose la donna, staccando la mano dalla maniglia del caveau «ma non posso certo darti roba di valore in cambio di una zucca».
«Ne ho altre nella mia motocicletta…»
«Una somma di briciole non fa una pagnotta».
«Mi contento di quello che puoi darmi».
«Altri ortaggi…? Ma che senso avrebbe, poi».
Il ragazzo scosse la testa: «Non hai dei semi?»
«Chi baratta qualcosa che si mangia per qualcosa che forse si mangerà fra un anno?»
«I contadini?» chiese il ragazzo con un lieve sorriso.
«Ma tu non sei un contadino» ribattè la donna «sei un mercenario, vero?»
«Io? No, per nulla».
Difficile credergli. Sotto il giubbotto di pelle nera lucida portava una specie di karategi nero bordato di velluto dorato, con ricamato un dragone rosso con quella che era (forse?) una costellazione, sul fianco. Cucito su un lato della giacca stava uno spallaccio, anche quello nero e lustro e orlato di ottone, e le maniche della giacca erano state tagliate via. Anche su un lato dei jeans neri era stato attaccato un parastinchi e una protezione laterale, come per proteggere la gamba se si sferrava un calcio imprudente. Era un abbigliamento che ricordava i guerrieri delle lande di dieci anni prima, ormai era raro trovarlo, e sottolineava persone di estrazione sociale e culturale bassa, che erano rimasti con la mente e con le azioni fermi all’epoca precedente; mercenari, picchiatori, bruti, forse perché non avevano altra scelta, o forse perché si portavano dietro l’eredità di qualche arte marziale potente, da far fruttare vivendo di violenza.
«Ti si riconosce subito. Dovresti stare attento, bel faccino, potresti incontrare gli Shogun e fare una brutta fine».
«Gli Shogun».
«Eh. Gli Shogun delle Luci. Con quelli le arti marziali ti servono a poco. Praticano un’arte superiore a tutte le altre».
Il ragazzo sbuffò appena dal naso.
«Le ripeto che non sono un mercenario. Sono stato ospite di un villaggio di contadini… al Bosco di Ryuroh. Mi hanno dato delle zucche quando avevo fame, e ora vorrei ripagarli».
«Come vuoi. Zucca insolita, semi insoliti. Tranquillo, non ti truffo».
«Grazie, signora».
Prese un sacchetto di semi.
«Pesante».
«Mango. E’ un frutto buonissimo e nutriente, ma mangia molta acqua. Chissà se gli interesserà?»
«Andrà bene».
«E te ne vai subito? Fra qualche ora io stacco…?»
Il ragazzo squadrò per un momento la donna, da capo a piedi.
«Non ho fretta, in realtà».
Lei a sua volta guardò bene lui, il suo fisico scolpito e il suo insolito colorito bronzeo con capelli così chiari.
«Allora ti offro una bevuta. Siedi pure lì».
«Non bevo, andrà bene dell’acqua, signora».
«Guarda che ho solo tre, o quattro anni più di te. Mi chiamo Iza».
«Iza… berrò dell’acqua a quel tavolo lì».
«E tu, bellezza, come ti chiami?»
«Ryu».
Quando si girò, lei rise tra sé: «Si vede che è impacciato con le donne. Che carino…»
Ryu sedette al tavolo, attendendo la sua acqua. Si mise ad ascoltare un gruppo di tre uomini anziani che raccontavano strane storie al tavolo accanto. Ogni tanto rideva con loro, anche se non s’intromise mai. Avevano un dialetto strano che trovava buffo.
«Ma ciao, Iza».
L’atmosfera nella cantina si gelò di colpo.
«La più bella da tutta Villany a Caveau City» esordì la voce baritonale.
Ryu non si girò nemmeno.
«Bricks. Credevo fossi ancora alla prigione».
«E invece no. Sai com’è la Legge Imperiale… insufficienza di prove, eccetra».
Si lasciò cadere pesantemente sul bancone. Erano molti gli uomini che, negli anni del conflitto atomico, erano cresciuti in maniera anormale, diventando enormi o eccessivamente longilinei, inspiegabilmente obesi. Ma quell’uomo aveva qualcosa di diverso. Era nero come inchiostro, benché nei tratti fosse decisamente di lineamenti oceanici. Nero e lucido come ossidiana.
«E non te ne sei tornato a Golan?»
«Sono stufo di ricordare vecchie glorie con quattro cariatidi di veterani. No… voglio mettere su una banda nuova».
Ryu calcolò rapidamente. Se si riferiva alle “vecchie glorie” intendendo i Berretti Rossi, che per un po' di tempo erano stati definiti l’Armata di Dio, allora quel tizio doveva avere intorno ai cinquanta anni. Ne dimostrava nemmeno trenta. Era un mutante, senza dubbio. Mostri pericolosi, secondo molti. Che meritavano di morire come bestie, dicevano altri.
«Buon per te. Che ti do?»
«Ahahah dritta al punto, eh, bellezza?»
La fissò dritta negli occhi. Iza era alta, con lunghe treccine brune e occhi bruni molto grandi, ma resse lo sguardo di lui – due occhi arrossati dalle iridi grigie e acquose, schiacciate come quelle di una capra o un montone – senza scomporsi.
«Vorrei chiederti di venire con me, in realtà».
«Sai che il vecchio Johnny non può gestire la cantina da solo. Che sarebbe Caveau City senza il suo caveau?»
«Sai che mi frega, di questa città. Ascoltami bene. Ho sentito dire che ci sono terre a est, oltre i Pozzi di Lastland, dove la legge dell’Impero non arriva. Lì si possono ancora fondare nuovi regni e nuovi domini… se si ha la forza per farlo. Di sicuro, preferiresti essere una principessa che il braccio destro di un vecchio cantiniere… no?»
Iza era una persona intelligente. Esitò a rispondergli direttamente per non scatenare la sua ira, ma al contempo non si mostrò troppo remissiva, temendo che la afferrasse e se la portasse via a spalla.
«Bricks, dovresti darmi del tempo per pensare ad una scelta simile. Nel frattempo perché non prendi qualcosa da bere?»
«E’ ragionevole» affermò Bricks «ma purtroppo il tempo mi manca. Credo di avere un Esecutore alle costole, che aspetta solo che io faccia un passo falso. E di passi falsi io intendo farne parecchi. Hai fino a stasera, dolcezza. Poi ti mollo qui. Assieme al cadavere del vecchio Johnny».
«Johnny sta benissimo».
«Finora».
Iza impallidì.
«La Legge Imperiale…»
«Potrà punirmi. Ma non riportare in vita il tuo patrigno».
«Non stai davvero dicendo…»
«Non sono un uomo che accetta un no di buongrado. Ma del resto, di che ti preoccupi? Io non ho il minimo dubbio che tu… dirai di sì».
Uscì baldanzoso dal locale e, con stupore di Iza, Ryu lo seguì rapidamente.
«Che fa quello stupido!»
Per un attimo guardò ciascuno degli avventori presenti, come se qualcuno dovesse dirle cosa fare. Poi si precipitò fuori.
«Ryu! Non fare scio- ma…»
Come non capisse affatto cosa turbava la donna, Ryu stava tranquillamente rientrando nel locale.
«Ma dov’è Bricks?»
«Chi…?»
«Non mi dirai che non l’hai notato!»
«Ah, quell’uomo scuro. Non so, se ne è andato. Di fretta, si direbbe».
«Cosa hai fatto?»
«In che senso?»
«Tu… c’entri qualcosa, vero?»
«Io? Aspetto solo la mia acqua».
«La tua… oh. Giusto».
Il clima si rianimò poco a poco, Ryu stette fermo a bere acqua e attese che la sera scendesse.
«Sono tranquilla, lo sai».
«Mi fa molto piacere» rispose lui, passeggiando accanto a Iza, per quanto fosse evidente che non era a suo agio.
«Sono tranquilla perché so che lo hai sistemato, quel tipo. Anche se non so come hai fatto».
«Credo che abbia semplicemente deciso di andarsene».
«Sei modesto. Sai, molti uomini credono che le donne siano attratte dalla violenza, dalla forza bruta. Ma non è così. Però siamo attratte da chi non ha paura di battersi per qualcosa. Questo sì… e molti fraintendono e fanno le bestie feroci. Tu… sei stato molto elegante».
«Sei gentile. Ma io credo che anche un uomo sarebbe attratto da una donna che si batte per qualcosa, allo stesso modo».
«Oh. Ahaha. Certo, immagino di sì».
«Comunque grazie».
«Sono complimenti che ti meriti!»
«No. Grazie per aver detto che non sei attratta dalla violenza. Non mi farebbe piacere pensare che ti interesso perché ho fatto del male a qualcuno».
Iza rise per la seconda volta: «Ma da dove sei venuto tu?»
Ryu alzò un dito verso il cielo: «Dalle stelle!»
«Ma che dici? Sei un alieno quindi?»
«E’ un modo di dire della mia famiglia».
«E’ un bel modo di dire».
«Sei gentile».
«Ma la tua famiglia! Me ne vuoi parlare?»
«Parlami tu della tua, per piacere».
Camminarono per un’ora buona, appena Iza smetteva di parlare, Ryu chiedeva un’altra cosa, ascoltandola attentamente. Se lei esprimeva un dubbio, Ryu rispondeva con un’altra domanda, che però la faceva riflettere sulla domanda che aveva posto. Arrivarono sotto casa di lei.
«Bè… zio Johnny dice che nel Mondo Scomparso questo si chiamava zicoloco».
«Zico…loco?»
«Una specie di medico che ti doveva stare a sentire tutto il tempo e poi tu lo pagavi. Scusa, ti ho fatto fare da zicoloco».
«No, mi fa piacere».
«Questa qui, comunque… è casa mia».
La carnagione bronzea di Ryu divenne improvvisamente color peperone.
«Allora… buona serata».
«Davvero vuoi finirla così?»
Qualcosa nell’espressione di Ryu tradì una certa insofferenza: «Io mi sono divertito» disse quasi seccato «Per te se finisce così è una delusione?»
Iza sorrise con un’espressione molto materna: «No, affatto».
Anche lui si tranquillizzò. Indietreggiò un passo alla volta.
«Allora… è stato bello».
«Ryu, posso chiederti una cosa?»
«Dimmi».
«Sei mai stato con una donna?»
Il corpo di Ryu divenne rigido come una pala.
«Sì» rispose, ma la sua voce era fredda come il ghiaccio.
«Allora… se ti fa paura toccarne una per… qualsiasi motivo… puoi dirlo. Non è una vergogna».
«Per un maes- per un uomo… è una vergogna avere paura».
Iza cambiò espressione, osservandolo confusa: «Hai detto un sacco di cose intelligenti stasera, ma questa era davvero stupida da dire».
Il ragazzo si voltò e sorrise un po' imbarazzato: «Forse hai ragione».
«Buonanotte, Ryu».
«Buonanotte, Iza».
Appena la porta della baracca dove Iza viveva fu chiusa, l’espressione di Ryu cambiò completamente. Si diresse a passo spedito verso il canale di scolo della città, e poi verso un pontile che vi passava sopra. Era concentrato come un animale da caccia. Sotto, come un pallone che galleggiava sull’acqua, spuntava dal liquame una testa lustra e nera.
«Basta, vieni fuori».
L’uomo venne fuori, camminando rigidamente.
«Puoi anche parlare».
«Cosa… cosa mi hai fatto?» chiese come se ogni parola gli costasse uno sforzo immane. Lui gli mise un dito davanti al naso.
«Hokuto Shinken, Scuola Cao. Il mio dito può penetrare la materia senza romperla, incluso il tuo cranio. E da lì ho premuto un meridiano, di nuovo un patrimonio della Scuola Cao… e ho soggiogato la tua mente, imponendoti di eseguire i miei ordini».
«Sono passate… ore».
«Scusami allora» fece il ragazzo, glaciale.
Con un colpo di scatto toccò con i suoi pollici entrambe le spalle dell’energumeno, poi i bicipiti, poi gli avambracci.
«Fra qualche minuto i muscoli del tuo corpo si torceranno, polverizzando le tue ossa. Non potrai usare le braccia, per moltissimo tempo, e non saranno mai più possenti come ora».
«Io lo so chi sei… trent’anni fa… mentre ero via con dei compagni… uno come te venne a Golan e uccise il Colonnello Karmell… un mostro come te!»
«Chi sono io è del tutto irrilevante».
Bricks si sentì porre le quattro dita di ciascuna mano dietro le orecchie: «Fra poco, sarà irrilevante anche chi sei tu».
In quella posizione innaturale si poteva pensare che Ryu stesse per baciarlo. Anche se lo sguardo era quello di un boia, non altro. Le punte delle dita sembravano quasi elettrizzare la pelle.
«Che vuoi dire?»
«Che la tua memoria sarà completamente cancellata».
«Cosa? Perché?»
«Non avrai più la tua forza, né la tua personalità. Dipenderai dalla gentilezza degli altri, e da quella che tu mostrerai agli altri. Dalla voglia che avranno, quando ti vedranno indifeso, di aiutarti. Di darti fiducia… se te la guadagnerai. Potrai iniziare una nuova vita».
«Una… nuova… vita?»
Le dita premettero appena sul cranio di lui.
«Io credo in una seconda vita» scandì Ryu, fissandolo negli occhi.
Qualcosa, nello sguardo di Bricks, si accese.
«E perché qualcuno dovrebbe… concedermi una seconda vita? Io… ho fatto solo del male, da che ricordo. Non c’è niente di buono che io abbia fatto».
«Non c’è niente di buono che hai fatto finora. Ma sorge sempre un’altra alba».
«Un’al-»
Bricks stava per dire qualcosa, ma Ryu non gliene diede il tempo: qualsiasi cosa avesse detto, qualsiasi promessa, invettiva o parola di gratitudine, l’avrebbe comunque dimenticata subito. Staccò le mani dal cranio di lui e lo sguardo dell’uomo sembrò sbarrarsi. Mentre era in quell’incoscienza totale, le braccia si torsero emettendo un orribile suono di fratturazione.
«Meno di un minuto. Avrei dovuto dosare meglio la forza? Dovrei fare pratica…»
Si guardò le mani. Una settimana prima, guardandosele, tra pezzetti di carne maciullata ci aveva trovato un bulbo oculare, schiacciato tra le dita. Non aveva emesso nemmeno una parola e si era andato a lavare le mani in un ruscello poco distante. Dietro di lui sentiva già dei corvi che si avvicinavano a quello che lui aveva lasciato, lì nell’erba…
Zio, tu…
Dimmi?
Hai vomitato? La prima volta?
L’uomo gli aveva sorriso, carezzandogli la testa.
Non devi vergognarti di ciò che sei.
Ti sei mai abituato? Quando senti la tua forza che entra dentro un altro corpo… e poi…
Mi sono abituato.
Ah. Certo.

E forse sono io che dovrei vergognarmi.
Ma tu, zio… sei il successore. Sei un dio…
Il suo mentore aveva scosso la testa.
Il successore… è un uomo.

Bricks, o l’uomo mutato che fino a quel giorno aveva quel nome, era ancora immobile a fissare il vuoto con occhi sgranati.
«Non sempre ho il tempo, o l’occasione, di fare così. Sei stato fortunato. Certo, dovresti ringraziare la sorte. O me. Ma so che non lo farai».
Bricks stramazzò a faccia in giù.
«Non lo fa nessuno».
All’alba, Iza uscì di casa.
«Ah! Mi hai spaventata».
Ryu era seduto su una balconata d’acciaio arrugginito, le mani giunte davanti al mento.
«Scusami».
«Tutto bene?»
«Sì. Senti…»
Tacque per diversi secondi.
«Parla liberamente» esortò lei.
«Io… di solito, quando qualcuno si avvicina a me, faccio in modo che non se ne ricordi».
«…faccio in modo che…? Come, scusa».
«Posso far sì che le persone mi dimentichino» scandì lui nuovamente, con serietà, poi guardandola di nuovo, disse: «Ti faccio paura, immagino».
Iza sorrise ostentando un po' di spavalderia, quindi camminò fino ad andargli vicinissimo.
«Se mi fai il nascondino fuori dalla porta alle sei del mattino, sì. Mi fai paura. Per il resto» si avvicinò ancora «no».
«Grazie. Sei davvero gentile».
«Continui a ripeterlo».
«Il vecchio Johnny» disse lei guardando alla sua sinistra «racconta di un uomo che venne qui quasi trent’anni fa, compiendo numerosi prodigi. Forse tu… sei come quell’uomo».
Iza non vide Ryu stringere il pugno, e i denti.
«No. Io non sono come lui».
Come hai potuto ingannarmi in questo modo? Perché?
Io non ti ho mai ingannato. Nulla di ciò che ti ho raccontato o tramandato, era una menzogna.
Era il senso stesso di quelle storie, a essere falso, non le storie in sé. Ancora non lo ammetti?
Ryu…
Maestro… zio... anche tu sei... un mostro.

«Che?»
«No, io… insomma il punto è che nel tuo caso… non vorrei, quindi… devo chiederti… se qualcuno chiedesse di me… di dimenticarti il mio viso».
Iza fissò gli occhi nei suoi: «E come si dimentica un viso così triste?»
Fece per carezzargli la guancia ma lui si scostò di un millimetro appena. Non l’aveva nemmeno toccata, per allontanarla, ma ogni centimetro della sua pelle era teso per stare distante da lei.
«Scusami» fece lei ritraendo la mano «ma ho capito cosa intendi».
Ryu scese dalla balconata.
«Io ricorderò il tuo, Iza».
«Vai davvero a portare semi al Bosco di Ryuroh a nord?»
Lui la guardò confuso: «Sì, perché?»
«Sembrerebbe che uno come te debba andare verso… non so… imprese più grandi…?»
Ancora una volta, qualcosa di simile alla rabbia gli distolse il viso per un momento.
«Quando uomini con un grande cuore dubitano di loro stessi, si confortano con grandi imprese per sentirsi grandi».
«Allora gli uomini davvero grandi… fanno piccole imprese?»
«Non ci sono uomini piccoli e uomini grandi» disse il ragazzo con decisione.
«E allora a che serve, avere un grande cuore?»
«Serve solo a sé stesso. E dovrebbe bastare».
Scosse la testa, come a scacciare un pensiero, e fu sul punto di voltarsi.
«Stanotte avrei dovuto nascondere me stessa e il mio patrigno per non morire, invece ho dormito serena. E solo grazie a te…»
«Sei gentile» disse lui per l’ennesima volta.
«Che sciocco sei» fece lei con gli occhi quasi umidi «Posso almeno abbracciarti prima che te ne vai?»
E improvvisamente, come fosse tornato bambino, chiuse gli occhi strizzandoli e irrigidito con le braccia aderenti al corpo come un soldatino di latta disse, arrossendo.
«Prova così!»
Iza scoppiò a ridere, e Ryu non dimenticò mai quella risata.
«Ehi…? A cosa stai pensando?»
Iza scosse la testa, guardando il vecchio Johnny.
«Io… a nulla, no».
Ryu doveva essere lontanissimo ormai, un puntino che sfrecciava tra le lande, sollevando polvere.
«Ma che hai, da stamattina?»
«No, niente, figurati».
Si girò per dire una cosa, quando un corpo scuro e ciondolante entrò nella cantina.
«Bricks…?»
«A… aiutatemi… vi prego!»
Si muoveva in modo innaturale, come cercasse di mostrare qualcosa ma senza riuscirci.
«Aiutatemi… le braccia… mi fanno male… vi scongiuro!»
«Bricks… ma cosa…?»
«Chi è Bricks?» chiese l’uomo, fissando Iza.
«Come…?»
«Tu. Tu sei Tibor Bricks».
«Io? Io sono…»
«Allora lui è Tibor Bricks» disse una terza voce, di un individuo esile che era entrato rapidamente dopo di lui.
«Sì, lui è-»
Un bagliore di fredda luce bianca la accecò per un istante. Quando riaprì gli occhi, c’era un ragazzo in piedi. Di Bricks restavano solo le gambe, e metà dello stomaco, tranciato di netto e completamente bruciato. Il ragazzo aveva un palmo aperto con cui sembrava indicare il corpo sfigurato, la sua mano era attraversata da una inspiegabile incandescenza multicolore.
«…Bri…»
I resti dell’umanoide caddero a terra, fumanti. Il ragazzo si volse verso Johnny e Iza. La sua divisa era un lungo cappotto di velluto nero chiuso da due file di bottoni, ricamato d’argento e ottone. I ricami, sulla schiena, formavano un’enorme croce di raggi. L’interno della veste era un arazzo di nubi di tutti i colori dell’iride.
«Ah… aaaah…»
«La tua assoluzione per assenza di prove risulta frutto di corruzione e minaccia. Pertanto, la tua richiesta di un processo di riesame…»
Abbassò la mano verso le gambe senza corpo e ci fu un secondo bagliore. Dopo, non rimase che un leggero filo di fumo che saliva da terra.
«…non viene accolta».
«Eccelso Shogun Argo» disse Johnny, tremando «è un onore avervi-»
Il ragazzo si voltò senza dire nulla e si incamminò verso l’uscita, ma si fermò di colpo.
«…qui».
Il ragazzo si voltò verso Iza, camminando lentamente. Lei ne guardò bene il viso dagli zigomi alti e severi. Aveva carnagione chiara e capelli biondo scuro, ciuffi ribelli venati di rame, rasati sulle tempie. Gli occhi, di un blu intenso, erano impassibili. Era forse più bello dello stesso Ryu, ma con una durezza nell’espressione, che incuteva terrore.
«Quest’uomo aveva uno strano comportamento. Non trova?»
«Io… non saprei».
«E’ successo qualcosa?»
«Qual… qualcosa? Qualcosa di che genere?»
Il ragazzo strinse appena gli occhi.
«Inutile mentire».
«Non… non so che dirle, davvero».
«Eccelso Shogun della Luce d’Aurora» esordì Johnny con una certa servilità, ma frapponendo il suo corpo tra Iza e il ragazzo «noi siamo gente semplice e-»
La mano di Argo, poggiata sul bancone, prese a sfrigolare come carne sul metallo rovente. Ma era il bancone a bruciare, non lui.
«Lo chiederò un’altra volta».
 
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view post Posted on 19/3/2020, 02:22     +1   -1

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CAP 3 La Banda delle Gru Rosse

«Sicura di voler andare così?»
«Non ti accorgi del casino che sta per succedere?» obiettò Aska, stringendosi ancora di più nel mantello lacero per coprire ogni traccia del suo volto.
«Ma il Successore non è qui».
«Ho un buon presentimento».
Anche Orka si nascose il più possibile in quella copertura di stracci.
«O magari stiamo fermi qui e lo perdiamo, perché sta scappando chissà dove».
«Non ti fidi del mio istinto?»
Si schiacciarono l’uno contro l’altro curvandosi, come cercando di sparire tra la folla. Il brusio era crescente.
«Questi contadinotti non dovresti arrestarli tutti, Esecutore di sto gran-»
«Ma vuoi stare zitto e vedere come si evolve la cosa? Hai problemi di iperattività per caso?»
«Sono un tipo d’azione».
«Sei un tipo da galera. Quindi dovresti lasciar perdere considerazioni su chi dovrei arrestare se fossi ligia al mio dovere».
«Scusi, signora Esecutrice».
«La smetti di ripeterlo?»
«Con questo casino potrei anche dire che sei Luise Seconda in persona».
«Zitto!»
In effetti ormai ciascuno stava parlando al vicino e non ci capiva un accidente.
«Basta!» disse uno dei contadini più anziani, cercando di riportare l’ordine.
«Se un funzionario Imperiale sapesse cosa stiamo facendo qui, saremmo rovinati».
«Quel che è deciso è deciso. Auguriamoci che non lo vengano a sapere mai».
Orka soffocò appena una risata e Aska gli tirò una gomitata sotto il mantello.
«Arrivano. Li vedo in lontananza» disse una massaia, indicando.
«Sono loro?»
«Si direbbe…»
Aska distolse lo sguardo, concentrandosi per un istante nel paesaggio. Il “Bosco di Ryuroh” era una vista, per molti, ancora incredibile. Era un quartetto di villaggi pieni di orti e frutteti a circondare quello che un tempo era stato il bosco vero e proprio: le figure irregolari di tronchi inceneriti durante la guerra, ora erano coperti di muschi verdeggianti e di steli che risalivano verso il sole, accompagnati da sottili mulini che alimentavano un rudimentale circuito eolico.
«E’ davvero un bel posto» commentò con un filo di voce.
Eppure avevano ragione: sarebbe stato suo dovere arrestarli tutti, in teoria.
«Chissà ancora per quanto» aggiunse Orka.
«Chissà» fece eco lei.
Era un luogo molto diverso dalle importanti sedi di potere politico che Aska aveva visto e rivisto più volte, non solo nell’aspetto ma anche nel carattere. Lastland vantava l’acqua, portata a loro – si diceva – da un dio-bambino, decenni prima, acqua abbondante e pura come nessun’altra; Eden, costruita intorno a una strana struttura sferica del Mondo Scomparso, produceva elettricità a sufficienza per illuminare una regione e ne custodiva gelosamente il segreto; le Città Sorelle Blanca e Sava, ospiti di un culto che praticava una strana medicina agopunturale, potevano dispensare la salute e si diceva che persino Sara, la signora del Villaggio Dei Miracoli, lavorasse ormai in stretta connessione con le Città Sorelle; Asgard, a sud, aveva le donne: concubine, amanti, assistenti, mogli, ma -la cosa più rara, in molte regioni- madri potenziali, fertili, giovani e in salute, preziose come gioielli per chi poteva permettersele, protette con l’acciaio dalla Regina Yu e dalle sue Valchirie. Le quattro Città-Regno, centri nevralgici di tutta l’area estasiatica. Ciascuna di queste tirava la corda con la Capitale tanto quanto poteva, ognuna facendo valere ciò che aveva, e con ognuna la Capitale Imperiale doveva trattare per faticosi e fragili accordi.
I regni frignano e l'Imperatrice dà le caramelle.
La ricchezza di un lastlandiano è la sete di un bracciante.
L'Impero vince con gli eserciti, Asgard con le mogli.
E così via.
«Un posto così...»
E del resto, la stessa Capitale Imperiale aveva un bene prezioso: la tecnologia, rimessa in piedi dallo Shogun della Luce Cremisi, l’infame Bijama. Persino chi riconosceva Bijama come il più abietto degli Shogun della Sublime Scuola di Gento ammetteva che era stato un genio e che aveva istituito nella Capitale un patrimonio scientifico comparabile a quello del Mondo Scomparso, indispensabile soprattutto per chi desiderava riesumare tecnologie perdute. Ciascuna di queste città era, in un certo senso, un enorme e tirannico parassita: trovata una risorsa, ci si avvinghiava stretta intorno, viveva nutrendosene, e ricattava chiunque volesse avere il privilegio di mendicarne un po'. Il Bosco di Ryuroh era diverso: lì l’umanità si era rialzata con le proprie forze dalle ceneri della Grande Guerra, senza ricattare, senza tassare, senza prosciugare. Era un posto che pulsava di vita ma soprattutto di vitalità, quella che era stata costruita con il duro lavoro di tutti, con i sogni e le speranze, non con l’appropriazione di qualcosa di necessario per tutti. Era una regione che esprimeva il potenziale dell’umanità futura, che faceva pensare che avesse fatto bene l’umanità, a sopravvivere alla Grande Guerra, che potesse ancora dare qualcosa di buono.
«So cosa stai pensando» sussurrò Orka.
«E come?»
«Ti conosco».
«Sentiamo».
«Nessuno ti obbliga a denunciare questa gente».
«Denunciare a chi? A me stessa?»
«Se andasse male, Aska, potremmo combattere anche noi per difenderli».
Aska guardò l’amico, sorridendo.
«Ti è venuto un attacco di generosità?»
«Macché. Non mi piace vederti triste».
Il sorriso si allargò: «Stanotte perché non mi metti le mani addosso?»
«Mi comandi proprio a bacchetta».
«Prendere o lasciare» avvisò lei, languida.
«Prendere, prendere!» rispose lui con tono buffo e lei ridacchiò.
«Difenderli… credi che questi siano dei cialtroni?»
«Non so, ma… ehi, arrivano davvero» indicò il ragazzo tirando il laccio che stringeva il cappuccio.
«Eccoli».
Erano in totale quattro furgoncini aperti, con non più di cinque, sei persone su ciascuno. Si fermarono bruscamente con una manovra che Aska riconobbe subito, formando una specie di piccola fortificazione attorno al furgoncino più piccolo, l’unico coperto da un telo.
«Ma… sarebbero queste?»
Aska condivideva lo straniamento di Orka. Per essere una banda tanto conosciuta, non avevano alcun tratto distintivo: erano uomini ben armati e dall’aria feroce, di diverse età e corporature, che ricordavano un po' i predoni e i barbari del decennio precedente. Per il resto nulla sembrava indicare la loro appartenenza a qualcosa o a qualcuno.
«Sei tu il capo qui?» chiese uno degli energumeni, fermandosi davanti a un anziano.
«Ehm noi… siamo in quattro, a dire il vero».
«Quattro! Troppo complicato. Al capo piacciono le cose semplici. Con chi dobbiamo parlare?»
Tre uomini nel mucchio guardarono il più anziano e fecero cenno di sì con la testa.
«D’accordo, parlate con me».
Orka squadrò quegli uomini minacciosi, uno ad uno.
«Bel materiale umano questo. Canaglie provette».
«Parli da esperto, eh?» sibilò Aska.
«Non è mica un reato».
«Essere esperti di delinquenza non è reato? Allora cosa lo è?»
«Punto per te. Ma poi, perché “le Gru Rosse”? Sono aggraziati quanto un branco di iene».
«Non ne so molto nemmeno io, ma ho un sospetto».
«Cioè?»
L’uomo robusto annuì: «Ti chiamo il capo, allora».
«Va … va bene. Certo».
Il “capo” scese dal furgoncino. Alla Corte Imperiale di Luise Seconda, Aska aveva visto i più strani e appariscenti modi di vestire e comportarsi, ma la figura che scese e camminò verso di loro risultò battere tutto quello che lei aveva visto fino a quel momento.
«Ma che gentaglia è, questa?» disse Orka quasi a voce alta.
«Parla piano!»
Era una donna di sicuro, da come camminava e dalla corporatura. Portava un lungo abito rosso scuro che lasciava libere le gambe, simile ad una uniforme buddista ma troppo lussuosa per esserlo, che però non si chiudeva sul collo: si apriva in un ampio e morbido cappuccio che gettava un’ombra sul volto. Sotto una gonfia cintura di seta damascata color lampone, le gambe erano avvolte in una veste aderente bianco avorio ma si poteva vedere che erano slanciate, tornite, aggraziate eppure forti, come quelle che nelle vecchie illustrazioni del Mondo Scomparso appartenevano alle “ballerine classiche”. Sulla spalla aveva poggiato un grosso volatile che si guardava intorno con aria curiosa, una gru dal lungo becco ricurvo, dal piumaggio color corallo.
«Voi siete dunque… Karin della Gru Rossa?»
La ragazza abbassò il cappuccio. Orka e Aska pensarono nello stesso identico momento che avrebbero voluto avere una terza invitata nel loro letto, quella notte, e si guardarono entrambi scoprendosi con gli zigomi arrossiti. Il volto della ragazza era di una bellezza irreale. Gli occhi erano viola e penetranti, i capelli color mogano legati in una voluminosa coda, con dei ciuffetti a coprirle la fronte che sembravano il certosino lavoro di un pittore. Era un volto da bambina, liscio e innocente, e al contempo da donna seduttiva e determinata. L’ultima volta che Aska si era sentita così attratta e soggiogata da una bellezza femminile era stato ad Asgard, due anni prima.
«Ma questo bacucco è rincretinito?»
Furono le prime parole che pronunciò, e furono sufficienti a spezzare la magia. La ragazza alzò rigidamente il braccio e indicò l’uccello sulla spalla.
«Cosa ti pare questo, vecchio scemo?»
«Io… un… uccello?»
«E che uccello ti sembra che sia? Che risposta vorresti? “No, c’è un equivoco, io non sono la Gru Rossa, ma mi porto una Gru Rossa in spalla per coincidenza. Il mio socio lì”…»
Indicò l’uomo nerboruto che aveva parlato per primo.
«… “è lui, la Gru Rossa! Pensa che buffo! Lui si fa chiamare così e io per pura coincidenza giro con in spalla un uccello che è proprio una gru! E ogni volta la gente pensa che sia io! Ma non è un caso stranissimo? Le risate, ogni volta!” …perché non ridi? Eh?»
«Va bene, ho capito il concetto!»
Karin lo afferrò per il bavero tirandolo a sé.
«Che c’è? Ti do fastidio?»
«N-no, io…»
«Anche tu che fai domande idiote, mi dai fastidio».
Lo spinse indietro lasciandolo cadere a terra. Lei fece un cenno verso i suoi uomini e questi scesero dal camion, ridendo tra loro.
«Bene. Avete cibo e acqua per tutti, immagino».
«Bè… sì… ma non dovremmo prima accordarci sul totale della ricompensa e poi…»
«La ricompensa è che ci prendiamo tutto quello che ci pare da bere, tutto quello che ci pare da mangiare, poi sbaracchiamo e ci portiamo via altra roba da bere e da mangiare, quanta ci pare. E per il resto siamo pace».
«Siamo… pace?»
Gli uomini sorpassarono i capi villaggio senza nemmeno guardarli più.
«Non fate troppo casino, bestiacce» urlò Karin.
«Aspettate! Per favore!»
«Che vuoi? Non dovresti espormi il problema, invece di perdere tempo?»
«Non potete prendere tutto quello che volete» esordì coraggiosamente il capovillaggio più giovane.
«Ah no?»
«Così non siete meglio dei predoni».
«Ti sbagli» rispose Karin «noi non vi ammazziamo. Molto meglio».
«Dunque siete solo dei predoni anche voi, ma più forti e meno pazzi».
Karin guardò l’uomo con aria annoiata e disse: «E l’Impero, o un Re, cosa credi che siano, se non banditi molto forti che ti concedono di vivere se eviti di contrariarli?»
«Ogni governo è definito dal monopolio della forza» dichiarò Aska a voce alta «ma se la sua azione non si fonda sulla giustizia non è altro che un violento più forte e organizzato di altri. Chi non crede nella giustizia, è logico che non veda differenza».
Si rese conto solo dopo aver parlato che era stata una pessima idea farlo.
«Finalmente è successo: ti sei bevuta il cervello» commentò Orka laconico.
Gli occhi di tutti erano su loro due. Karin camminò fino ad andare davanti a lei.
«Non sei di qui, immagino».
Aska era una donna eccezionalmente forte. “Hai preso i pugni da tuo padre” gli dicevano in tanti, anche se lei non era davvero figlia dell’uomo da cui aveva preso. Aveva sconfitto innumerevoli uomini, alcuni dei quali molto pericolosi. Era abituata a parlare a chiunque a testa alta.
«…no» disse tremando, ma a stento si sentì qualcosa.
«Dunque non ti spiace se parlo con la gente che mi ha ingaggiato, mentre tu cerchi un posto dove andare a farti fottere?»
«…no».
Mentre Karin si allontanava, Orka non fece nemmeno una minima osservazione spiritosa. Come Aska, anche lui era abile nella lotta. E come lei, all’avvicinarsi di Karin aveva sentito un presentimento di morte che non aveva mai sentito prima in tutta la sua vita. La sensazione, di certo, di un piccolo erbivoro nell’attimo in cui contempla le fauci che stanno per divorarlo, e la paura blocca ogni altro pensiero.
«Dove eravamo, citrulli? Ah, sì. Che problema avete?»
«…iba».
«Cosa ha detto quell’omino?»
Era stato il più piccolo e gracile dei capi, un uomo con due piccoli occhialini, a parlare.
«La Famiglia Kiba. Ne avrà sentito parlare».
Intanto alcuni contadini si separarono dalla piccola folla, andando a inseguire “le Gru Rosse” che si aggiravano per le campagne con l’aria di chi non sa cosa iniziare a mangiare.
«No».
«No?»
«No».
«Sono uomini che vivono come bestie» spiegò il capovillaggio anziano «ma hanno una cultura forte. Sono stati spazzati via più volte ma fintanto che ne sopravvive qualcuno, tornano a moltiplicarsi, come parassiti…»
«Parassiti, eh» commentò lei svogliatamente mentre con la mano carezzava la gru che aveva sulla spalla, guardandosi intorno.
«Praticano il cannibalismo. Violentano uomini e donne, ma le donne le tengono per riprodursi. Condividono tutto tra loro, si considerano fratelli… condividono i giacigli, i bottini, le donne, i loro stessi corpi, a quanto pare, sfogano i propri istinti gli uni sugli altri e-»
«Senti, stai cercando di farmi passare la fame? A che mi serve sapere tutte queste schifezze su gente che fra poco sarà tutta morta?»
«No!» sbottò l’anziano «Lei non capisce! Non vogliamo che sia ucciso nessuno!»
Karin restò un attimo a bocca aperta.
«Ehi, babbei… forse ci siamo fraintesi. Non sono Karin della Gru Rossa l’allevatrice di bestiame, sono quell’altra Karin della Gru Rossa, quella che ammazza la gente. Chiamate la Karin che cercate e ditegli che c’è stato un errore di persona».
«Un mese fa sono scesi per una razzia» iniziò a raccontare il capovillaggio giovane «ma non… non sono mai… arrivati… qui».
Karin strinse gli occhi: «E’ strano come lo dici. Non sono arrivati qui? In che senso?»
«Noi… non siamo sicuri. La verità è che non ci ricordiamo nulla di quella notte. Ma eravamo in sedici, e due non erano nemmeno di qui…»
Aska dedusse rapidamente che uno dei due doveva essere il barista conosciuto una settimana prima.
«…e tutti alla fine abbiamo concordato che la cosa più probabile è che non siano proprio arrivati».
«Ma che storia è?» s’innervosì la ragazza.
«E crediamo che i Kiba… pensino lo stesso. Per questo hanno deciso di… di mandare un messaggero».
Orka e Aska trasalirono.
«La Famiglia Kiba, un messaggero?» si stupì l’Esecutrice.
«Credo vogliano… mettersi alla ricerca dei fratelli scomparsi. E dunque non abbiano voglia di spostarsi in massa per questa valle, senza capire cosa sia davvero successo».
«Da cui il messaggero» proseguì il capovillaggio minuto.
«Ho avuto l’idea di ingaggiarvi» fece l’ultimo capovillaggio, che fino a quel momento non aveva parlato: era un uomo barbuto, alto e impostato, con diverse cicatrici sulle braccia «perché conosco bene la Famiglia Kiba. Sono feroci, e idolatrano la ferocia come valore assoluto. Quando un loro fratello diventa debole, si dice che venga sbranato anche quello. E noi… anche se ci chiedessero un tributo di cibo per lasciarci in pace e noi acconsentissimo, se ci trovassero remissivi finirebbero per portarci via qualche donna o qualche ragazzino, di certo».
«Insomma, eccelsa Karin… noi chiediamo la vostra protezione».
«Eccelsa…? Ma come parlate? Avete un ritardo mentale di qualche tipo?»
Il capovillaggio minuto aggiunse, aggiustandosi gli occhiali: «Del resto, questa vallata è il luogo che un vostro compagno di arti marziali protesse e amò…»
«Un mio cosa?»
«Il Sapiente Ryuroh, Maestro del Gabbiano Planante di Nanto» declamò l’uomo con solennità.
«Non lo conosco. Che è, uno morto?»
L’uomo rimase interdetto qualche secondo, poi disse: «Bè, sì… è morto trent’anni fa, ma le sue idee hanno permesso di-»
«Interessante» fece lei sorpassando l’uomo e scendendo la strada verso uno dei villaggi «io vado a mangiare».
«Aspetti! Il messaggero sarà qui al tramonto!»
«Interessante anche questo» rispose lei da lontano, nascondendo di nuovo la testa nel cappuccio.
Orka e Aska si guardarono un’altra volta.
«Aska».
«Dimmi».
«Tu sei stata al cospetto dei tre Shogun…»
«Molte volte».
«Hai mai sentito-»
La ragazza lo interruppe subito: «Non ero mai stata così paralizzata».
«Chiedo scusa, viaggiatori. Ma voi, chi siete?» chiese il capovillaggio più giovane e risoluto.
La folla si disperdeva, solo i quattro capovillaggio erano rimasti a guardarli.
«Solo questo… viandanti».
«Avete rischiato di intromettervi» disse l’uomo.
«Scusateci» fece Aska con deferenza, poi si tolse il cappuccio «siamo stati insolenti. Ma vogliateci ospitare fino a domani mattina. Possiamo ricompensarvi bene».
«Siete viandanti ricchi, quindi?» inquisì l’uomo anziano.
«Ricchi… e generosi. Con chi non fa domande».
L’anziano guardò gli altri.
«Avete parlato come un funzionario esemplare, poco fa. Dal Mondo Scomparso ad oggi, a studiare le Leggi e i loro fondamenti non saranno stati che una manciata di uomini e donne».
«Se io fossi un funzionario imperiale» rispose Aska sostenendo lo sguardo di quegli uomini «non sarei di certo qui per arrestarvi. E se rimanessimo in buoni rapporti, non avrei ragione di deviare dal mio proposito e concentrarmi su altre questioni».
«Se foste un funzionario imperiale, però, non avreste scelta. Ci stiamo facendo giustizia da soli, questo l’Impero non lo lascia certo correre…»
«Se lo fossi, certo. Ma nulla dice che io lo sia».
Gli uomini si guardarono di nuovo.
«Non vi sto minacciando, sia chiaro. L’offerta di merce vale comunque. Le mie intenzioni sono buone, credetemi».
«E quei mercenari?»
«Le Gru Rosse? Non sono il nostro obiettivo».
«Difficile credere che un funzionario di basso livello possa lasciar correre tante irregolarità».
«Forse lei non è un funzionario di basso livello, allora» s’intromise Orka «forse è un funzionario di ampie vedute. Ma voi, signori? Avete vedute ampie? Le nostre tasche, del resto, sono ampie, ma non infinite. Quanto ampie sono le vostre vedute?»
Orka era un abile corruttore e sapeva decifrare bene la personalità che aveva di fronte. Un attimo prima che l’indignazione accendesse la rabbia del capovillaggio nerboruto il ragazzo, sapendo bene di non avere davanti gente da comprare con la promessa di un guadagno personale, aggiunse, indicando una cisterna, una precisazione.
«Abbiamo con noi merce molto rara. Una centralina che potreste barattare facilmente, ma che potreste ancor più produttivamente usare per quella cisterna laggiù. Notavo, prima, che non emette rumore. E’ rotta?»
«Sì… lo è».
«Se chiudessimo tutti un occhio, per avere quattro villaggi meno assetati, e la finissimo immediatamente con le domande?»
«Di certo però-»
«Eh no, immediatamente significa immediatamente».
«Ma noi-»
«Del resto se fosse, e sempre dico se fosse, una funzionaria dell’Impero, tutta questa conversazione non potrebbe avere luogo. Dopotutto».
Mentre i due scendevano a valle, Aska lo tirò per un braccio: «Siamo una bella squadra eh?»
«Io cercavo solo di avere la mia parte».
«La tua parte?»
«Io. Tu. Mani addosso. Stanotte».
«Ah, lo facevi per quello».
«Chiaro».
Lo baciò sulla guancia: «Che bugiardo».
Iniziava a imbrunire. Gli uomini di Karin andavano in giro bevendo e mangiando senza pagare. Orka si avvicinò ad uno che aveva l’aria di aver bevuto troppo per frenare la lingua.
«Ti offro da bere, amico?»
«Ma tanto qui si beve gratis».
«Giusto. Com’è che ve la spassate così? Ho sentito che il vostro capo vuole che combattiate».
L’uomo scoppiò a ridere.
«Ma che dici. Non abbiamo alcun bisogno di combattere».
«In che senso?»
«Noi serviamo solo il capo. La proteggiamo quando dorme, ad esempio, o quando non può combattere perché… sai, le donne, ogni mese hanno…»
«Sì, ho presente. Ma che vuol dire? Non combattete mai?»
«Quasi mai. Basta il capo».
«Non contro un esercito».
«Si vede che non l’hai mai vista».
«Dunque gli fate solo da guardia quando serve?»
«Esatto».
«E non avete mai pensato di tradirla?»
«E chi sarebbe così stupido? Combattiamo poco, rischiamo quasi niente, in cambio lei divide con noi tutto ciò che ottiene con… quello che fa lei».
«Con la sua forza, intendi?»
L’uomo dondolò un po' la testa: «Non so se si può parlare proprio di forza, in questo caso. E’ più…»
«…più?»
«Sai, come ci raccontavano da bambini. Anni fa… lottatori troppo potenti per essere affrontati da uomini comuni… gente che falciava vite sui campi di battaglia, inarrestabili come dei… l’Età degli Eroi… questo genere di cose».
«Come gli Shogun della Luce?»
«Non saprei, ma immagino di sì».
Orka rabbrividì. Un proverbio conosciuto alla Capitale Imperiale era: L’Impero ha Sette Armate, ma se le cose si mettono male, ha Tre Shogun. L’idea che per le lande camminasse a briglia sciolta qualcuno che era più o meno come uno Shogun, era di certo destabilizzante. Era, dopotutto, in buona parte anche la ragione per cui in origine Luise Seconda aveva incaricato Aska di portarle Ryu dell’Hokuto Shinken. E questa ragazza da dove usciva?
Il cielo era rosso, ormai, e sulla collina dove erano parcheggiati i furgoncini si recarono i capovillaggio assieme a pochi altri, Orka, Aska. La maggior parte delle Gru Rosse era rimasta ai villaggi in fondo. Karin arrivò per ultima, barcollando. Sembrava un po' ubriaca.
«Senti, coso» disse appoggiandosi a uno dei suoi uomini più giovani «tienimi il pollo, qui».
Gli porse la gru tra le braccia e quello la prese con una delicatezza quasi comica. Poi lei si sfilò il vestito e lo tirò addosso a un altro dei suoi, su cui cadde coprendogli la testa. Ora aveva solo i pantaloni aderenti color avorio e una stretta canottiera alla mandarina, dello stesso colore. I capelli mogano ondeggiavano al vento, mentre lei sembrava quasi annusare l’erba.
«E’ davvero stupenda» commentò Aska, non riuscendo a trattenersi.
«Lo è» assentì Orka.
Il corpo era bello in modo molto diverso da quello pieno e florido di Aska, e malgrado fosse flessuoso e femminile, dava l’idea di qualcosa di duro, di affilato. Era affusolato e flessibile, ma minaccioso, come la spina di una rosa.
«Eccolo lì».
«E’ uno di loro…»
Un triclomotore discese rombando dalle montagne. Era ornato con teschi e dipinto di quelli che sembravano fluidi corporei. L’uomo a bordo era muscoloso, ma per lo più coperto da una veste di pellicce, denti e ossa cucite insieme. Karin continuò a camminare fino ad essere davanti a tutti, poi ancora.
«Levati, stupida baldracca!» urlò con voce gutturale l’uomo.
Karin alzò di scatto un braccio, tenendolo ritto come una lama. Qualcosa nei movimenti dell’uomo si spense. Quando il triclomotore fu a un centimetro da lei saltò in aria roteando a braccia aperte, come una croce che ruota sul suo centro, dondolando in aria come una foglia secca.
«Quella è …!» disse Aska, cadendo all’indietro.
«Viene verso di noi!» urlò il capovillaggio nerboruto, mettendosi davanti agli altri.
«No» precisò Orka «non è vero».
Orka era un osservatore attento: quando Karin aveva alzato il braccio un’onda d’urto sottile ma precisa aveva spaccato in due l’uomo, e anche il veicolo. Avvicinandosi, infatti, l’uomo e il veicolo si divisero in due, continuando ad avanzare senza vita né forza. Il volo era servito solo a schivare l’impatto con un avversario già morto.
«Non… non credevo che l’avrei mai visto» mormorò Aska, sbalordita.
Orka guardò ammirato il cadavere e il rottame. Era una sezione così precisa che sembrava una illustrazione presa da un libro. Il motore del triclomotore sezionato in due scoppiettò, poi si silenziò del tutto. Ora c’era solo il soffio del vento e il frusciare dei campi.
«Avete dell’acqua fredda? Ho una sbornia davvero rognosa» disse Karin tenendosi la testa tra le mani.
«Ma cosa avete fatto!» sbottò l’anziano capovillaggio, terrorizzato «Quello era il messaggero!»
«Il…? Ah, sì. Bè, trattative finite, mi pare».
«Non avete capito nulla allora! Finora non ci hanno massacrato perché non pensano che abbiamo colpito nessuno dei fratelli! Lo capite? Ora lo faranno!»
«I morti non massacrano nessuno. Ora rilassati, perché mi fa male la testa».
«Non potete fare tutto ciò che volete!» rincarò il capovillaggio giovane.
Karin indicò la sua vittima: «Secondo me, lui pensa che posso. Dovresti dargli retta anche tu».
Uno dei suoi uomini le portò dell’acqua.
«Per te, capo».
«Sono tutti tesi, in questa valle schifosa» borbottò lei.
«Di sicuro… di sicuro qualcuno della Famiglia Kiba ci osservava con un cannocchiale…» valutò il capovillaggio gracile «avranno già visto… avranno visto…»
«Certo, che hanno visto» sbuffò Karin «è proprio ciò che volevo».
«Siete davvero stupida!» insistette il capovillaggio giovane «Anche se siete fortissima, anche se stanotte ne uccidete cinquanta, se anche ne sopravvivono solo due, non penseranno ad altro che a riformare la famiglia e a vendicarsi, dovessero metterci vent’anni! Non ci libereremo mai di questa maledizione, ora!»
Mentre i capovillaggio inveivano contro Karin, Orka tirò su Aska per il braccio.
«Che c’è?»
«La Gru Rossa di Nanto è uno stile statico, basato su colpi di potenza in affondo» recitò Aska, tramortita «ma quando ha schivato in aria era…»
«Non sono un esperto conoscitore della storia dell’Età degli Eroi quanto te, Aska. Ma credo che la cosa giusta da fare sia allontanarsi subito da questa tipa».
«Ora dimmi una cosa» rispose Karin sciacquandosi il viso, avvicinandosi al capovillaggio giovane «Tu hai qualcuno che ami?»
«Cosa…?»
«Non è una domanda difficile, imbecille».
«Certo… certo che ce l’ho».
«Bene. Ora ipotizziamo che qualcuno prendesse quella persona che tu ami, la scuoiasse viva, la appendesse a una corda e ti dicesse che gli darà il colpo di grazia solo quando sarà assolutamente certo che fino all’ultimo dei tuoi compaesani sia morto. E sia chiaro, i tuoi compaesani creperanno tutti, tu creperai, l’unica cosa su cui hai controllo è: quanto a lungo soffrirà, quella persona che ami? E se per caso, per salvare qualcuno dei tuoi compagni, mi menti e per tua sfortuna me ne accorgo, cos’altro potrei fare a quella persona? Allora, in questo scenario… mi aiuteresti ad ammazzare tutti?»
Era sceso il silenzio per la seconda volta. E stavolta nessuno l’avrebbe interrotto.
«Hai capito la domanda?»
«…n-no».
«Infatti, non l’hai capita. Siete tutti idioti».
Adesso i capo villaggio tremavano.
Lei sospirò: «Ma siete idioti che mi hanno pagato per risolvere un problema. Quindi…»
Indicò il ragazzo che teneva la gru in braccio.
«Io faccio un’escursione. Dai da mangiare al pollo».
«Certo, capo».
«Torno domattina».
«Sì».
Fu come se tutti loro fossero soggiogati da un incantesimo. Nessuno si mosse o parlò nuovamente. La sera divenne notte, poi alba, senza che nessuno facesse praticamente niente, se non fissare il punto in cui Karin era scomparsa, scendendo verso il pendio delle montagne. All’alba, qualcosa risalì la collina. Era difficile definirlo un essere umano. Era una figura esile, interamente coperta di sangue e da brandelli di qualcosa di viscido, dalla testa ai piedi. Camminò nell’erba lasciando una striscia di sporcizia rossa e marrone. Emanava un fetore insopportabile.
«Hai dato da mangiare al pollo?» chiese la creatura.
«Certamente, capo».
Nessuno dei capovillaggio aprì bocca.
«Ci crederesti che l’Impero non riusciva a spazzare via questa marmaglia? Ma chi è che assume la gente, alla Capitale? Come cittadina imperiale» scosse la mano, da cui schizzò via un lembo di carne «mi sento presa in giro. Tu no?»
«Sì, capo».
Si voltò verso Aska.
«Che ti guardi, bamboccia?»
Aska abbassò lo sguardo senza rispondere.
«Ah, ho capito. Ho per caso… qualcosa in faccia?» disse pulendo con le dita uno schizzo nero che aveva sullo zigomo.
I tre suoi uomini che erano lì scoppiarono a ridere. Risero a lungo, e Aska capì che al divertimento per la battuta si aggiungeva la sensazione esilarante che si prova quando la tensione si scarica. Ma era chiaro: nessuno di loro aveva alcun dubbio che Karin sarebbe tornata. Non era la preoccupazione per Karin, a renderli nervosi e ansiosi. Era il terrore.
«Voglio lavarmi».

Edited by momo.86 - 19/3/2020, 02:37
 
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CAP 4 LA MISSIONE DI ASKA

Ryu, a quel tempo, aveva appena compiuto diciannove anni.
«Sei pronto?»
«Ancora un attimo, zio».
Ispirò bene l’aria salmastra.
«Non mi ero mai reso conto di quanto fosse meraviglioso questo mondo. Anche ferito com’è…»
Kenshiro gli battè una mano sulle spalle: «Anche io ho avuto poco tempo di ammirarlo».
La baia da cui si salpava per la Terra degli Shura era incrostata di sale bianco. Il mare era così salato da non consentire ai pesci di viverci, ma resti di vita marina cristallizzati dal sale formavano una scogliera luccicante dalla bellezza macabra, un cimitero bianco sotto un cielo azzurro e gelido.
«Io e il mio pengyou Falco, quando salpammo questo mare, non avemmo occasione di fermarci» ricordò Kenshiro con un sorriso malinconico.
«Pengyou? Che significa?»
Kenshiro non era tipo da scoppiare a ridere, ma sussultò appena in una sommessa risata.
«Ryuken mi diceva che era una parola che il suo predecessore usava spesso. Che riassumeva un po' la sua filosofia di vita. È un po' come dire… amico, compagno. In qualche modo mi è entrata dentro quando l’ho conosciuto».
«Tu… hai conosciuto il sessantaduesimo successore?»
«Anche tu stai per conoscerlo. Stiamo andando in Cina per questo».
«Sì… giusto».
In qualche modo, Ryu aveva conservato l’innocenza di un bambino dinnanzi alle cose nuove. Kenshiro ricordò di averlo visto così entusiasta solo dinnanzi al corridoio di ghiaccio con le sacre statue dei sacerdoti, a Blanca, che fendeva la nebbia fino alle guglie aguzze della città, arrampicata sui monti innevati. Stupefacente, di certo, per un ragazzino che fino a prima aveva conosciuto solo i campi avidi della Red Valley e il podere di Kouketsu “la Iena”. Ma dopo qualche anno passato a vivere a Blanca, di certo, si era abituato anche a quello. Ora era diverso: non andava a trovare una nuova casa dove passare anni, ma piuttosto a compiere un pellegrinaggio. Vedere il mondo per un attimo di passaggio, assaporarlo, poi perderlo nuovamente, un’emozione continua.
«Mi domando se andrà tutto bene a Blanca… negli ultimi due anni si è riempita di malati in cerca della “guarigione divina”… che non esiste più».
«Ho chiesto alla dottoressa Sara di mettersi in contatto con loro» illustrò Kenshiro aiutando uno dei marinai ad annodare delle funi «staranno bene».
«Non hai paura a consegnare le conoscenze di zio Toki a loro?»
«Chi non possiede l’Hokuto Shinken non può guarire il prossimo come faceva Toki. Ma molte scoperte di Toki e Sara saranno utili. E la Regina Ruseri è degna di fiducia».
Gli carezzò la testa: «inizi già a preoccuparti del mondo. Sei proprio adatto al tuo destino, Ryu».
Il ragazzo scosse la testa, riflessivo: «Io non ne sono sicuro. Tu sei cresciuto con il potente Ryuken come padre adottivo…»
«I tuoi genitori non erano certo discendenti di alcuna stirpe, ma ti hanno insegnato l’amore e la sincerità. È più importante di ogni tecnica, che comunque ti ho insegnato già. E il resto te l’ha insegnato Barran…»
«Va bene, maestro… zio».
«Puoi chiamarmi tranquillamente Ken, se preferisci».
Ryu ripensava spesso a quelle parole. Che cosa esattamente voleva dire il suo maestro? Barran aveva rubato a suo padre Raoul e a suo zio Toki appena qualche tecnica. Le aveva usate per usurpare il regno di Blanca. Si era finto un dio, in grado di dispensare guarigioni miracolose e, in qualche caso, la morte. Era stato Raoul stesso a metterlo su quella strada, apparentemente: lo aveva sfidato a sorpassare Dio.
Ma Raoul aveva capito… è l’amore che salva la gente, non la violenza.
Secondo Kenshiro, Raoul ad ogni incontro con lui e con il fratello Toki e con Julia, la donna che Kenshiro amava, aveva capito sempre più l’inutilità della sua ambizione. Forse però, già con l’affetto verso Barran e quello che provava verso Reina, la donna che aveva dato Ryu alla luce, iniziava a comprendere. Il terrore può unire i popoli. Una forza superiore, schiacciando tutte le altre, porta ordine. Ma non l’ordine interiore, non la pace del cuore. Una pace mantenuta col terrore non ti rende un dio, ma solo un tiranno.
Io non sono grande! Per nulla! Ma lo diventerò! Conquisterò le terre oltre il mare e poi tornerò qui!
Questa era stata, un tempo, la sua motivazione. Tornare in Cina e salvare Reina e Soga, i suoi amici, e Kaio e Sayaka, fratello e sorella, dalla violenza insensata che stava dilagando lì. Ma con il tempo l’aveva perduta. Lui era l’unico uomo che contasse davvero, il più importante del mondo. Non per qualche vacua motivazione moraleggiante ma per una semplice e sincera legge: quella della forza, della vittoria.
Anche Julia fa parte della mia ambizione. È una delle cose che intendo conquistare.
Julia non è una cosa, Raoul. L’amore non è una ambizione.

Ma Toki amava troppo suo fratello per poterlo cambiare.
Se la desideri, perché non te la prendi? Vuoi forse essere ricordato come un santo, che ha messo i suoi desideri dopo quelli degli altri? Che ego smisurato, di chi vuol essere ricordato come buono, anche dopo la morte! Ma tutti gli uomini muoiono soli, Toki! Non ho nulla da rispondere a un codardo!
Ma cosa nascondeva la sicurezza di quell’uomo, quella sicurezza che rimbombava prepotente anche nei racconti su di lui, così evidente che sembrava di averlo ancora davanti, spavaldo e determinato? Una volta, dopo una delle infinite storie che Kenshiro gli aveva raccontato, aveva osato chiedere…
«Ma mio padre… amava davvero mia madre, Reina? O Julia…? Ha amato mai qualcuno?»
«Tuo padre ha amato smisuratamente. Ma aveva perso la capacità di accorgersene».
Il ruolo del tiranno suo padre l’aveva recitato fino alla fine; dopo che l’incontro con l’Orco Buono, il possente Fudo, lo aveva messo di fronte alla sua incapacità di affrontare la tristezza, di immedesimarsi con gli sconfitti, di soffrire per gli altri, di fronte al terrore di un conquistatore sempre vittorioso di fronte al coraggio di chi si erge da sconfitto, di chi piange e soffre per le sciagure altrui, per Raoul era già finita. La sua incapacità di capire qualsiasi sentimento che non fosse l’ambizione negli altri e in sé stesso l’aveva in qualche modo tutelato, fino a quel punto, ma ora l’armatura era in frantumi. Andare incontro alla sconfitta e alla morte era stata la sua redenzione: lui aveva scacciato i demoni della violenza insensata, tutti tranne sé stesso. A Kenshiro era dunque toccato superare il fratello e, al contempo, redimerlo.
L’Hokuto Shinken salva il cuore delle persone.
Suo zio Kenshiro lo ripeteva spesso. Ma Ryu non aveva assistito alla “redenzione” di Raoul. Barran, rendendosi conto di aver inseguito un eroe che per primo non credeva più alla propria stessa leggenda, si era fatto sconfiggere e uccidere anche lui. Ecco cosa gli aveva insegnato: come perdere. Il loro “cuore”, certo, era stato salvato. Eppure…
«A cosa pensi?»
Il mare scorreva veloce sotto la chiglia di legno scricchiolante.
«A nulla, zio».
«Non credo sia vero».
Ryu sospirò.
«È normale avere dei dubbi, Ryu. Puoi parlarmene».
Ryu sembrò rannicchiarsi come per abbracciarsi alla balaustra della nave.
Come può il figlio del conquistatore del secolo, allievo del più potente successore di sempre, avere dei dubbi? Come può avere paura di qualcosa? Come può confessare che non capisce il senso di ciò che cerchi di insegnargli…?
«Devo chiarirmi bene le idee io…»
Sono forse il successore più stupido della storia dell’Hokuto Shinken?
«D’accordo. Se vorrai, sono qui per parlare».
Dopo qualche giorno la terra iniziò ad avvicinarsi dall’orizzonte.
«Arriviamo».
«Tieniti pronto, Ryu».
Avevano detto che la Cina era diventata una landa demoniaca. “La Terra dei Demoni”. Molte arti marziali assassine terribili erano state coltivate nei secoli, ma avevano perso ogni rilevanza nella società del Mondo Scomparso. Dopo la Grande Guerra Nucleare, però, quelle tradizioni occulte e apparentemente prive di ragion d’essere erano riaffiorate. Era un mondo nuovo, in cui chi sapeva uccidere a mani nude o con un bastone era di un’altra casta rispetto ad un uomo normale, destinato per forza di cose a fargli da servo, nel migliore dei casi. Il potere politico e militare sparivano, solo la capacità di sopraffare e uccidere contava. Ma rispetto ad altre terre, la Cina aveva fatto di questa circostanza una legge e questo l’aveva cambiata...
«Questo… è… l’inferno?»
La spiaggia era piena di palizzate, diverse delle quali infilzavano dei corpi umani ormai consumati dall’aria e dall’acqua. La sabbia aveva un colore innaturale.
«Pe… perché stanno qui?»
«I demoni si ammazzano tra loro» commentò distrattamente un marinaio «noi non scendiamo qui a terra, chiaro? Andrete da soli».
Andarono, salutati in tutta fretta da chi li aveva traghettati.
«Zi…zio… era così anche quando…»
«No. L’attività dei demoni è molto diminuita. Quando venni io, erano tutti cadaveri freschi».
Kenshiro giunse le mani in una specie di preghiera.
«Ricorda bene, Ryu. Ci sono vite per le quali nessuno piangerà mai. Il nostro compito è farci carico anche di queste lacrime, per quanto possiamo».
Farci carico…?
«La strada per il Taiseiden è lunga. È meglio andare».
«Sarà… tutta così?»
«No. Sono poche ormai le regioni dove non arriva la legge dell’Imperatrice Luise. Ma dovremo attraversarne una. Stai al mio fianco e non avrai nulla da temere».
Ma Ryu non aveva minimamente pensato alla sua incolumità. Piuttosto, la sua mente faticava ad accettare ciò che vedeva. Attraversarono una foresta i cui alberi erano pieni di corpi appesi, ormai scheletriti. Un crepaccio con dei ponti sottili, il cui fondo era ripieno di una massa lucida e sbiadita che Ryu capì con orrore essere una specie di discarica di corpi massacrati. A dire il vero, Ryu non avrebbe nemmeno detto, prima di vederli, che al mondo ci fossero ancora tanti uomini da uccidere. Suo zio gli aveva spiegato più volte il grande valore di una vita, il mondo di possibilità che da essa si dischiude. Allora pensò che la parola “spreco” non si avvicinava nemmeno a descrivere quello che stava vedendo. Se ogni vita aveva un così alto valore, che nome si doveva dare alla capacità dell’essere umano di compiere carneficine insensate? Come si poteva anche solo comprendere, la gravità di tanta morte, di tanta violenza?
«Siamo quasi alla fine» annunciò Kenshiro dopo due giorni di camminata.
«Ah. Be… bene».
Le città, vestigia delle metropoli affollate che erano state un tempo, erano solitamente vuote. Piene di insegne ormai spente, in caratteri cinesi che Ryu non riusciva minimamente a comprendere. Per qualche ragione erano trattate come cimiteri: meglio vivere in delle baraccopoli incastrate tra una valle e l’altra che tentare di riabitarle. Erano anch’esse terreno di “caccia” degli shura. Ma nel loro viaggio non se ne avvicinò nemmeno uno: quasi che in qualche modo intuissero che con Kenshiro era meglio non avere a che fare. Malgrado questo, la notte erano prudenti, e dormivano senza accendere fuochi, nascosti in qualche palazzo in rovina come piccoli insetti rintanati.
«Dev’essere l’inferno per forza».
Ryu non dimenticò mai quell’odore. L’odore di cadaveri ammassati. Gli si impresse nella memoria come un sigillo.
«Ma cosa…»
Erano passati dieci anni da allora. Ma ricordava ancora molto bene quell’odore. Lo sentì con la certezza di un cane da caccia, lo seguì come una scia scarlatta tra le rocce della montagna, in delle grotte da cui si vedevano ancora i mulini e il Bosco di Ryuroh. Li trovò. Corpi. Una massa di carne umana, lasciata a decomporsi al sole. Qualcosa che un tempo era stato vivo.
«Questi sono…?»
Un mese prima aveva affrontato degli uomini di questa banda, i Kiba. Era stato complicato: erano rapidi e aggressivi e non era stato facile non ucciderli subito. Li aveva paralizzati, poi li aveva costretti a spostarsi nel fondovalle. Aveva cancellato la memoria dei pochi testimoni presenti. Aveva fatto loro molte domande: chi erano, cosa volevano. Erano oltre ogni redenzione. Ne aveva lasciato vivere solo uno.
«Dì ai tuoi capi che sono ancora in tempo per cambiare vita. Altrimenti, tornerò anche per loro».
«Chi diavolo sei?»
«Un uomo di Hokuto».
Era stato suo zio Kenshiro a sterminare la maggior parte della Famiglia Kiba, quasi trent’anni prima. Forse la paura sarebbe stata sufficiente a farli fuggire, o in alternativa l’avrebbero seguito, animati dal famoso rancore implacabile dei Kiba. Dopo qualche settimana, sicuro che non l’avessero seguito, si era deciso a tornare indietro al Bosco di Ryuroh con una scusa. E questo era quanto aveva trovato: pezzi immersi in una pozza di sangue che poteva arrivare alle caviglie.
«Questo modo di uccidere… potrebbe essere...»
Il sole tramontava, e il villaggio meridionale si stava rianimando un po'. Orka era da qualche parte a spiegare ai contadini come usare la centralina per far ripartire la vecchia cisterna. Dopo due giorni, le Gru Rosse e il loro capo, chiunque essa fosse, si erano dileguate.
«Vuoi bere ancora, signorina?»
«Cos’è sta roba?»
«Bodca».
«Bod… ca?»
«Credo si chiami così? Non so. Un liquore fatto con le patate. Dovresti chiedere al vecchio Aleksei».
«No, mi fido».
«Vorrei vedere, sei al terzo bicchiere. Se era veleno ti eri già scavata la fossa».
«Versa, va».
In presenza di Orka evitava di bere, dato che lui si controllava poco con l’alcol, ma ora che era da sola poteva bere quanto voleva. O così credeva. Sobbalzò quando si trovò il ragazzo accanto.
«E poi sarei io il beone».
«Mi sa che possiamo andarcene da qui» rispose lei, sconsolata.
«Lo cerchi da mesi. Un tentativo a vuoto in più o in meno non casca il mondo».
«No, certo».
Era la sua idea di cosa fosse “il mondo” che stava cadendo, però. L’Era degli Eroi era finita. Non c’erano più guerrieri capaci di spazzare via intere armate o, se c’erano, erano i tre Shogun al servizio dell’Impero. L’Impero era il più giusto, ma anche il più forte. La coesistenza di questi due aspetti assicurava che quella fosse un’era nuova, diversa, dove i capricci del più potente dei guerrieri non contavano tanto quanto la legge che assicurava la convivenza di tutti. Persone come Ryu e Karin… non esistevano più. Non avrebbero dovuto, almeno.
«Dai, tirati su».
«Sì, tranquillo, sto… be…»
Sgranò così tanto gli occhi che sembravano uscire dalle orbite.
«Che c’è?» chiese Orka, dunque si voltò verso il punto che Aska guardava.
«Quel tipo ha un abbigliamento strano, eh».
Il ragazzo entrò e si portò al bancone con tranquillità.
«Ciao, vecchio».
«Oh, ragazzo».
«C’è Ushio? Volevo ringraziarlo per gli ortaggi è portato un po' di semi di… manghio… nanghio?»
«…mango?»
«Esatto».
«Torna domattina, è sceso a valle».
«Ah, bene».
«Bevi?»
«Solo acqua. O tè».
Il vecchio ridacchiò, stappando un fiasco di acqua fresca.
«Tutto bene qui alla valle?»
Aska intanto passò un foglio di carta spiegazzato a Orka.
«Cos’è?»
«È il ritratto che la Somma Luise Seconda ha fatto dell’uomo che stiamo cercando, quando s’incontrarono in Cina» sussurrò Aska «forse vuoi guardarlo un momento».
«Ah, quel foglio che…» mentre lo guardava, il sorriso di Orka si spense.
«Cos’hai per me?» chiese il vecchio.
«Un sacchetto di riso?»
«Siamo pieni di riso, ultimamente. Ma va bene, sei un bravo ragazzo. Un sacchetto di riso per tutta questa tanica d’acqua. Sa un po' di plastica ma…»
«No, va benissimo. Casa di Ushio è in fondo alla strada?»
«Se non l’hanno spostata».
Prima di uscire, il ragazzo si guardò un po' intorno.
«È successo qualcosa negli ultimi giorni, vecchio? C’è un’aria un po' strana…»
Il vecchio ridacchiò nervosamente.
«Qualcosa è successo, sì. Ti fai raccontare da Ushio o da Sami, quando la vedi».
«Oh, Sami!» esclamò il ragazzo con un sorriso che ad Aska stupì, pieno di calore umano «sarà bello rivederla! E il bimbo?»
«Ah, lo sfornerà presto. Vai a trovarla, si annoia finchè Ushio non torna».
Uscendo dalla locanda con la tanica in mano, si fermò di colpo. Poi camminò ancora verso una motocicletta in buone condizioni, su cui caricò l’acqua. Mentre annodava la tanica, si immobilizzò una seconda volta.
«Fatela finita».
«Non stavamo cercando di coglierti alle spalle» rispose Aska, alzando le mani.
«Sì, veniamo in pace» chiosò Orka, con fare un po' ironico.
«Meglio per voi. Chi siete?»
«Non sono una criminale, tranquillo. Sono un’Esecutrice dell’Impero».
«Interessante distinzione» ironizzò lui, e Orka rise per la battuta.
Il ragazzo si girò verso loro due.
«Sei… Ryu… il successore dell’Hokuto Shinken?»
«Credo lo sappiate già».
Aska sembrò dover trattenere l’emozione per un attimo.
«Sono la figlia di un amico del tuo maestro… mio padre si chiamava Ein».
«Anche io. Mio padre si chiamava Orka, come me».
«Questo dovrebbe fare qualche differenza? Non conosco nessuno dei due, se non nei racconti del mio maestro. Voi che volete da me?»
«Abbiamo bisogno di voi o… del vostro maestro… o entrambi».
«Il mio maestro non so dove sia, ormai».
Alle sue parole, Aska sembrò sbiancare un po'.
«Co… come, non lo sapete».
Sulla mia lapide non occorre alcun nome.
«È andato a vivere i suoi ultimi giorni come maestro di Hokuto. Lontano, forse via dall’Estasia».
«Ma fuori dall’Estasia… non c’è nulla… solo morte» obiettò Aska.
«O forse ci sono alcuni che nemmeno l’Impero raggiunge, che vivono nella disperazione? Chi può dirlo, senza andare a vedere?»
«E per andare a vedere hai lasciato che il Salvatore del Secolo si lasciasse morire nelle lande?» chiese Aska quasi spazientendosi.
«Non è una scelta che potevo discutere. Ma anche avessi potuto, non lo vedevo da molti anni. Ho solo saputo che ha dato seguito a questo proposito da dei pellegrini che lo hanno incontrato».
Aska dondolò la testa, sconfortata: «Bene… cioè… allora voi».
«Allora io… cosa?»
«L’Imperatrice Luise Seconda richiede il vostro aiuto».
«E per cosa mai? Ha un intero esercito e i suoi shogun per portare avanti i suoi propositi».
«L’Hokuto non ha forse il compito di tutelare chi guida il mondo?»
Ryu storse la bocca per un momento.
Ma allora zio… quale è davvero il compito dell’Hokuto, in questo mondo?
Sai, una volta mio padre Ryuken mi raccontò una storia…

«Mi sorprende che non mi hai rifilato la solita filastrocca della fedeltà all’Imperatore Celeste, Esecutrice».
«No… l’Imperatrice mi ha spiegato bene».
«Ah sì? E cosa?»
«L’Hokuto Shinken è nato al servizio dell’Imperatore dell’antica Cina, ma se ne distaccò già secoli prima della Grande Guerra. L’Imperatrice ha detto chiaramente che non avete alcun obbligo e che quella che dobbiamo portarvi è una richiesta d’aiuto e non un ordine».
Ryu scrutò i due, poi sospirò.
«Non mi aggiungerò ai monumenti che abbelliscono la Capitale. L’Impero ha gli Shogun, si facesse bastare quelli per qualsiasi-»
«Ma è questo il problema! Uno degli shogun si è ribellato! Pianifica un colpo di stato ai danni dell’Imperatrice Celeste!»
A quel punto fu Ryu a produrre una smorfia sbalordita.
«Questo è… di chi si tratta? Drauthos?»
Orka aveva osservato con insistenza ogni centimetro del volto di Ryu. Notò la lieve venatura di disapprovazione che gli aveva attraversato il volto, nel dire quel nome.
«No, non è il Solare Drauthos ad aver abbandonato l’Imperatrice».
«Dunque quel ragazzo… Ipsen?»
«Nemmeno l’eccelso Lunare Ipsen. Si tratta dell’eccelso Argo dell'Aurora».
Di nuovo il volto di Ryu si contorse e a Orka non sfuggì.
«Impossibile».
«Lo conoscete?» chiese Orka.
«Argo, figlio di Falco? Quello?»
«Lui» confermò Aska.
«Non lo conosco, no. Ma so che non si ribellerebbe mai».
«Le assicuro che è così. Capisce quanto è grave la situazione?»
«Non può essere Argo».
«È Argo».
Ryu scosse un attimo la testa, disorientato.
«Ha ancora due shogun con cui tenerne a bada uno».
«Gli Shogun sono il pilastro della forza dell’Impero! Non possono occuparsi di null’altro che di sé stessi! E Argo è sì il meno potente di loro, ma è sfuggente… l’eccelso Drauthos lo sta cercando da…»
«Gli equilibri dell’Impero non mi riguardano, io… sono qui per andare a trovare degli amici. E basta».
Poi qualcosa nel viso si ammorbidì: «Spero che Lu stia bene. Ditele che la saluto».
Come sarebbe, Lu? Pensarono i ragazzi per un attimo mentre lui si incamminava.
«Non… non è tutto» insistette Aska venendogli dietro.
«Sei insistente».
«Anche se vuoi ignorare la cosa, Argo non lo farà! Sappiamo quasi per certo che ti sta cercando!»
«Me? E perché? Nemmeno mi conosce».
«Non lo sappiamo» spiegò Orka continuando a squadrarlo «anzi, abbiamo anche temuto che volesse chiederti di appoggiarlo».
Continuando a scendere per il sentiero, Ryu sbuffò distrattamente: «Che ci provi pure».
Aska rimase interdetta, non sapendo cos’altro dire. Ma Orka sembrava non aver aspettato altro che questo momento per parlare.
«Hai finito con la sceneggiata? Non sei qui per visitare degli amici».
«E tu che ne sai?»
«Non vuoi sapere cosa è successo davvero, sulle montagne?»
Ryu non mosse un altro passo. Ora i rumori del villaggio che si preparava alla notte sembravano lontanissimi, c’erano solo loro tre e il vento nell’erba, il cigolio di qualche mulino. Lentamente Ryu si girò, guardando Orka negli occhi.

Edited by momo.86 - 1/4/2020, 12:50
 
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