| CAP 3 La Banda delle Gru Rosse
«Sicura di voler andare così?» «Non ti accorgi del casino che sta per succedere?» obiettò Aska, stringendosi ancora di più nel mantello lacero per coprire ogni traccia del suo volto. «Ma il Successore non è qui». «Ho un buon presentimento». Anche Orka si nascose il più possibile in quella copertura di stracci. «O magari stiamo fermi qui e lo perdiamo, perché sta scappando chissà dove». «Non ti fidi del mio istinto?» Si schiacciarono l’uno contro l’altro curvandosi, come cercando di sparire tra la folla. Il brusio era crescente. «Questi contadinotti non dovresti arrestarli tutti, Esecutore di sto gran-» «Ma vuoi stare zitto e vedere come si evolve la cosa? Hai problemi di iperattività per caso?» «Sono un tipo d’azione». «Sei un tipo da galera. Quindi dovresti lasciar perdere considerazioni su chi dovrei arrestare se fossi ligia al mio dovere». «Scusi, signora Esecutrice». «La smetti di ripeterlo?» «Con questo casino potrei anche dire che sei Luise Seconda in persona». «Zitto!» In effetti ormai ciascuno stava parlando al vicino e non ci capiva un accidente. «Basta!» disse uno dei contadini più anziani, cercando di riportare l’ordine. «Se un funzionario Imperiale sapesse cosa stiamo facendo qui, saremmo rovinati». «Quel che è deciso è deciso. Auguriamoci che non lo vengano a sapere mai». Orka soffocò appena una risata e Aska gli tirò una gomitata sotto il mantello. «Arrivano. Li vedo in lontananza» disse una massaia, indicando. «Sono loro?» «Si direbbe…» Aska distolse lo sguardo, concentrandosi per un istante nel paesaggio. Il “Bosco di Ryuroh” era una vista, per molti, ancora incredibile. Era un quartetto di villaggi pieni di orti e frutteti a circondare quello che un tempo era stato il bosco vero e proprio: le figure irregolari di tronchi inceneriti durante la guerra, ora erano coperti di muschi verdeggianti e di steli che risalivano verso il sole, accompagnati da sottili mulini che alimentavano un rudimentale circuito eolico. «E’ davvero un bel posto» commentò con un filo di voce. Eppure avevano ragione: sarebbe stato suo dovere arrestarli tutti, in teoria. «Chissà ancora per quanto» aggiunse Orka. «Chissà» fece eco lei. Era un luogo molto diverso dalle importanti sedi di potere politico che Aska aveva visto e rivisto più volte, non solo nell’aspetto ma anche nel carattere. Lastland vantava l’acqua, portata a loro – si diceva – da un dio-bambino, decenni prima, acqua abbondante e pura come nessun’altra; Eden, costruita intorno a una strana struttura sferica del Mondo Scomparso, produceva elettricità a sufficienza per illuminare una regione e ne custodiva gelosamente il segreto; le Città Sorelle Blanca e Sava, ospiti di un culto che praticava una strana medicina agopunturale, potevano dispensare la salute e si diceva che persino Sara, la signora del Villaggio Dei Miracoli, lavorasse ormai in stretta connessione con le Città Sorelle; Asgard, a sud, aveva le donne: concubine, amanti, assistenti, mogli, ma -la cosa più rara, in molte regioni- madri potenziali, fertili, giovani e in salute, preziose come gioielli per chi poteva permettersele, protette con l’acciaio dalla Regina Yu e dalle sue Valchirie. Le quattro Città-Regno, centri nevralgici di tutta l’area estasiatica. Ciascuna di queste tirava la corda con la Capitale tanto quanto poteva, ognuna facendo valere ciò che aveva, e con ognuna la Capitale Imperiale doveva trattare per faticosi e fragili accordi. I regni frignano e l'Imperatrice dà le caramelle. La ricchezza di un lastlandiano è la sete di un bracciante. L'Impero vince con gli eserciti, Asgard con le mogli. E così via. «Un posto così...» E del resto, la stessa Capitale Imperiale aveva un bene prezioso: la tecnologia, rimessa in piedi dallo Shogun della Luce Cremisi, l’infame Bijama. Persino chi riconosceva Bijama come il più abietto degli Shogun della Sublime Scuola di Gento ammetteva che era stato un genio e che aveva istituito nella Capitale un patrimonio scientifico comparabile a quello del Mondo Scomparso, indispensabile soprattutto per chi desiderava riesumare tecnologie perdute. Ciascuna di queste città era, in un certo senso, un enorme e tirannico parassita: trovata una risorsa, ci si avvinghiava stretta intorno, viveva nutrendosene, e ricattava chiunque volesse avere il privilegio di mendicarne un po'. Il Bosco di Ryuroh era diverso: lì l’umanità si era rialzata con le proprie forze dalle ceneri della Grande Guerra, senza ricattare, senza tassare, senza prosciugare. Era un posto che pulsava di vita ma soprattutto di vitalità, quella che era stata costruita con il duro lavoro di tutti, con i sogni e le speranze, non con l’appropriazione di qualcosa di necessario per tutti. Era una regione che esprimeva il potenziale dell’umanità futura, che faceva pensare che avesse fatto bene l’umanità, a sopravvivere alla Grande Guerra, che potesse ancora dare qualcosa di buono. «So cosa stai pensando» sussurrò Orka. «E come?» «Ti conosco». «Sentiamo». «Nessuno ti obbliga a denunciare questa gente». «Denunciare a chi? A me stessa?» «Se andasse male, Aska, potremmo combattere anche noi per difenderli». Aska guardò l’amico, sorridendo. «Ti è venuto un attacco di generosità?» «Macché. Non mi piace vederti triste». Il sorriso si allargò: «Stanotte perché non mi metti le mani addosso?» «Mi comandi proprio a bacchetta». «Prendere o lasciare» avvisò lei, languida. «Prendere, prendere!» rispose lui con tono buffo e lei ridacchiò. «Difenderli… credi che questi siano dei cialtroni?» «Non so, ma… ehi, arrivano davvero» indicò il ragazzo tirando il laccio che stringeva il cappuccio. «Eccoli». Erano in totale quattro furgoncini aperti, con non più di cinque, sei persone su ciascuno. Si fermarono bruscamente con una manovra che Aska riconobbe subito, formando una specie di piccola fortificazione attorno al furgoncino più piccolo, l’unico coperto da un telo. «Ma… sarebbero queste?» Aska condivideva lo straniamento di Orka. Per essere una banda tanto conosciuta, non avevano alcun tratto distintivo: erano uomini ben armati e dall’aria feroce, di diverse età e corporature, che ricordavano un po' i predoni e i barbari del decennio precedente. Per il resto nulla sembrava indicare la loro appartenenza a qualcosa o a qualcuno. «Sei tu il capo qui?» chiese uno degli energumeni, fermandosi davanti a un anziano. «Ehm noi… siamo in quattro, a dire il vero». «Quattro! Troppo complicato. Al capo piacciono le cose semplici. Con chi dobbiamo parlare?» Tre uomini nel mucchio guardarono il più anziano e fecero cenno di sì con la testa. «D’accordo, parlate con me». Orka squadrò quegli uomini minacciosi, uno ad uno. «Bel materiale umano questo. Canaglie provette». «Parli da esperto, eh?» sibilò Aska. «Non è mica un reato». «Essere esperti di delinquenza non è reato? Allora cosa lo è?» «Punto per te. Ma poi, perché “le Gru Rosse”? Sono aggraziati quanto un branco di iene». «Non ne so molto nemmeno io, ma ho un sospetto». «Cioè?» L’uomo robusto annuì: «Ti chiamo il capo, allora». «Va … va bene. Certo». Il “capo” scese dal furgoncino. Alla Corte Imperiale di Luise Seconda, Aska aveva visto i più strani e appariscenti modi di vestire e comportarsi, ma la figura che scese e camminò verso di loro risultò battere tutto quello che lei aveva visto fino a quel momento. «Ma che gentaglia è, questa?» disse Orka quasi a voce alta. «Parla piano!» Era una donna di sicuro, da come camminava e dalla corporatura. Portava un lungo abito rosso scuro che lasciava libere le gambe, simile ad una uniforme buddista ma troppo lussuosa per esserlo, che però non si chiudeva sul collo: si apriva in un ampio e morbido cappuccio che gettava un’ombra sul volto. Sotto una gonfia cintura di seta damascata color lampone, le gambe erano avvolte in una veste aderente bianco avorio ma si poteva vedere che erano slanciate, tornite, aggraziate eppure forti, come quelle che nelle vecchie illustrazioni del Mondo Scomparso appartenevano alle “ballerine classiche”. Sulla spalla aveva poggiato un grosso volatile che si guardava intorno con aria curiosa, una gru dal lungo becco ricurvo, dal piumaggio color corallo. «Voi siete dunque… Karin della Gru Rossa?» La ragazza abbassò il cappuccio. Orka e Aska pensarono nello stesso identico momento che avrebbero voluto avere una terza invitata nel loro letto, quella notte, e si guardarono entrambi scoprendosi con gli zigomi arrossiti. Il volto della ragazza era di una bellezza irreale. Gli occhi erano viola e penetranti, i capelli color mogano legati in una voluminosa coda, con dei ciuffetti a coprirle la fronte che sembravano il certosino lavoro di un pittore. Era un volto da bambina, liscio e innocente, e al contempo da donna seduttiva e determinata. L’ultima volta che Aska si era sentita così attratta e soggiogata da una bellezza femminile era stato ad Asgard, due anni prima. «Ma questo bacucco è rincretinito?» Furono le prime parole che pronunciò, e furono sufficienti a spezzare la magia. La ragazza alzò rigidamente il braccio e indicò l’uccello sulla spalla. «Cosa ti pare questo, vecchio scemo?» «Io… un… uccello?» «E che uccello ti sembra che sia? Che risposta vorresti? “No, c’è un equivoco, io non sono la Gru Rossa, ma mi porto una Gru Rossa in spalla per coincidenza. Il mio socio lì”…» Indicò l’uomo nerboruto che aveva parlato per primo. «… “è lui, la Gru Rossa! Pensa che buffo! Lui si fa chiamare così e io per pura coincidenza giro con in spalla un uccello che è proprio una gru! E ogni volta la gente pensa che sia io! Ma non è un caso stranissimo? Le risate, ogni volta!” …perché non ridi? Eh?» «Va bene, ho capito il concetto!» Karin lo afferrò per il bavero tirandolo a sé. «Che c’è? Ti do fastidio?» «N-no, io…» «Anche tu che fai domande idiote, mi dai fastidio». Lo spinse indietro lasciandolo cadere a terra. Lei fece un cenno verso i suoi uomini e questi scesero dal camion, ridendo tra loro. «Bene. Avete cibo e acqua per tutti, immagino». «Bè… sì… ma non dovremmo prima accordarci sul totale della ricompensa e poi…» «La ricompensa è che ci prendiamo tutto quello che ci pare da bere, tutto quello che ci pare da mangiare, poi sbaracchiamo e ci portiamo via altra roba da bere e da mangiare, quanta ci pare. E per il resto siamo pace». «Siamo… pace?» Gli uomini sorpassarono i capi villaggio senza nemmeno guardarli più. «Non fate troppo casino, bestiacce» urlò Karin. «Aspettate! Per favore!» «Che vuoi? Non dovresti espormi il problema, invece di perdere tempo?» «Non potete prendere tutto quello che volete» esordì coraggiosamente il capovillaggio più giovane. «Ah no?» «Così non siete meglio dei predoni». «Ti sbagli» rispose Karin «noi non vi ammazziamo. Molto meglio». «Dunque siete solo dei predoni anche voi, ma più forti e meno pazzi». Karin guardò l’uomo con aria annoiata e disse: «E l’Impero, o un Re, cosa credi che siano, se non banditi molto forti che ti concedono di vivere se eviti di contrariarli?» «Ogni governo è definito dal monopolio della forza» dichiarò Aska a voce alta «ma se la sua azione non si fonda sulla giustizia non è altro che un violento più forte e organizzato di altri. Chi non crede nella giustizia, è logico che non veda differenza». Si rese conto solo dopo aver parlato che era stata una pessima idea farlo. «Finalmente è successo: ti sei bevuta il cervello» commentò Orka laconico. Gli occhi di tutti erano su loro due. Karin camminò fino ad andare davanti a lei. «Non sei di qui, immagino». Aska era una donna eccezionalmente forte. “Hai preso i pugni da tuo padre” gli dicevano in tanti, anche se lei non era davvero figlia dell’uomo da cui aveva preso. Aveva sconfitto innumerevoli uomini, alcuni dei quali molto pericolosi. Era abituata a parlare a chiunque a testa alta. «…no» disse tremando, ma a stento si sentì qualcosa. «Dunque non ti spiace se parlo con la gente che mi ha ingaggiato, mentre tu cerchi un posto dove andare a farti fottere?» «…no». Mentre Karin si allontanava, Orka non fece nemmeno una minima osservazione spiritosa. Come Aska, anche lui era abile nella lotta. E come lei, all’avvicinarsi di Karin aveva sentito un presentimento di morte che non aveva mai sentito prima in tutta la sua vita. La sensazione, di certo, di un piccolo erbivoro nell’attimo in cui contempla le fauci che stanno per divorarlo, e la paura blocca ogni altro pensiero. «Dove eravamo, citrulli? Ah, sì. Che problema avete?» «…iba». «Cosa ha detto quell’omino?» Era stato il più piccolo e gracile dei capi, un uomo con due piccoli occhialini, a parlare. «La Famiglia Kiba. Ne avrà sentito parlare». Intanto alcuni contadini si separarono dalla piccola folla, andando a inseguire “le Gru Rosse” che si aggiravano per le campagne con l’aria di chi non sa cosa iniziare a mangiare. «No». «No?» «No». «Sono uomini che vivono come bestie» spiegò il capovillaggio anziano «ma hanno una cultura forte. Sono stati spazzati via più volte ma fintanto che ne sopravvive qualcuno, tornano a moltiplicarsi, come parassiti…» «Parassiti, eh» commentò lei svogliatamente mentre con la mano carezzava la gru che aveva sulla spalla, guardandosi intorno. «Praticano il cannibalismo. Violentano uomini e donne, ma le donne le tengono per riprodursi. Condividono tutto tra loro, si considerano fratelli… condividono i giacigli, i bottini, le donne, i loro stessi corpi, a quanto pare, sfogano i propri istinti gli uni sugli altri e-» «Senti, stai cercando di farmi passare la fame? A che mi serve sapere tutte queste schifezze su gente che fra poco sarà tutta morta?» «No!» sbottò l’anziano «Lei non capisce! Non vogliamo che sia ucciso nessuno!» Karin restò un attimo a bocca aperta. «Ehi, babbei… forse ci siamo fraintesi. Non sono Karin della Gru Rossa l’allevatrice di bestiame, sono quell’altra Karin della Gru Rossa, quella che ammazza la gente. Chiamate la Karin che cercate e ditegli che c’è stato un errore di persona». «Un mese fa sono scesi per una razzia» iniziò a raccontare il capovillaggio giovane «ma non… non sono mai… arrivati… qui». Karin strinse gli occhi: «E’ strano come lo dici. Non sono arrivati qui? In che senso?» «Noi… non siamo sicuri. La verità è che non ci ricordiamo nulla di quella notte. Ma eravamo in sedici, e due non erano nemmeno di qui…» Aska dedusse rapidamente che uno dei due doveva essere il barista conosciuto una settimana prima. «…e tutti alla fine abbiamo concordato che la cosa più probabile è che non siano proprio arrivati». «Ma che storia è?» s’innervosì la ragazza. «E crediamo che i Kiba… pensino lo stesso. Per questo hanno deciso di… di mandare un messaggero». Orka e Aska trasalirono. «La Famiglia Kiba, un messaggero?» si stupì l’Esecutrice. «Credo vogliano… mettersi alla ricerca dei fratelli scomparsi. E dunque non abbiano voglia di spostarsi in massa per questa valle, senza capire cosa sia davvero successo». «Da cui il messaggero» proseguì il capovillaggio minuto. «Ho avuto l’idea di ingaggiarvi» fece l’ultimo capovillaggio, che fino a quel momento non aveva parlato: era un uomo barbuto, alto e impostato, con diverse cicatrici sulle braccia «perché conosco bene la Famiglia Kiba. Sono feroci, e idolatrano la ferocia come valore assoluto. Quando un loro fratello diventa debole, si dice che venga sbranato anche quello. E noi… anche se ci chiedessero un tributo di cibo per lasciarci in pace e noi acconsentissimo, se ci trovassero remissivi finirebbero per portarci via qualche donna o qualche ragazzino, di certo». «Insomma, eccelsa Karin… noi chiediamo la vostra protezione». «Eccelsa…? Ma come parlate? Avete un ritardo mentale di qualche tipo?» Il capovillaggio minuto aggiunse, aggiustandosi gli occhiali: «Del resto, questa vallata è il luogo che un vostro compagno di arti marziali protesse e amò…» «Un mio cosa?» «Il Sapiente Ryuroh, Maestro del Gabbiano Planante di Nanto» declamò l’uomo con solennità. «Non lo conosco. Che è, uno morto?» L’uomo rimase interdetto qualche secondo, poi disse: «Bè, sì… è morto trent’anni fa, ma le sue idee hanno permesso di-» «Interessante» fece lei sorpassando l’uomo e scendendo la strada verso uno dei villaggi «io vado a mangiare». «Aspetti! Il messaggero sarà qui al tramonto!» «Interessante anche questo» rispose lei da lontano, nascondendo di nuovo la testa nel cappuccio. Orka e Aska si guardarono un’altra volta. «Aska». «Dimmi». «Tu sei stata al cospetto dei tre Shogun…» «Molte volte». «Hai mai sentito-» La ragazza lo interruppe subito: «Non ero mai stata così paralizzata». «Chiedo scusa, viaggiatori. Ma voi, chi siete?» chiese il capovillaggio più giovane e risoluto. La folla si disperdeva, solo i quattro capovillaggio erano rimasti a guardarli. «Solo questo… viandanti». «Avete rischiato di intromettervi» disse l’uomo. «Scusateci» fece Aska con deferenza, poi si tolse il cappuccio «siamo stati insolenti. Ma vogliateci ospitare fino a domani mattina. Possiamo ricompensarvi bene». «Siete viandanti ricchi, quindi?» inquisì l’uomo anziano. «Ricchi… e generosi. Con chi non fa domande». L’anziano guardò gli altri. «Avete parlato come un funzionario esemplare, poco fa. Dal Mondo Scomparso ad oggi, a studiare le Leggi e i loro fondamenti non saranno stati che una manciata di uomini e donne». «Se io fossi un funzionario imperiale» rispose Aska sostenendo lo sguardo di quegli uomini «non sarei di certo qui per arrestarvi. E se rimanessimo in buoni rapporti, non avrei ragione di deviare dal mio proposito e concentrarmi su altre questioni». «Se foste un funzionario imperiale, però, non avreste scelta. Ci stiamo facendo giustizia da soli, questo l’Impero non lo lascia certo correre…» «Se lo fossi, certo. Ma nulla dice che io lo sia». Gli uomini si guardarono di nuovo. «Non vi sto minacciando, sia chiaro. L’offerta di merce vale comunque. Le mie intenzioni sono buone, credetemi». «E quei mercenari?» «Le Gru Rosse? Non sono il nostro obiettivo». «Difficile credere che un funzionario di basso livello possa lasciar correre tante irregolarità». «Forse lei non è un funzionario di basso livello, allora» s’intromise Orka «forse è un funzionario di ampie vedute. Ma voi, signori? Avete vedute ampie? Le nostre tasche, del resto, sono ampie, ma non infinite. Quanto ampie sono le vostre vedute?» Orka era un abile corruttore e sapeva decifrare bene la personalità che aveva di fronte. Un attimo prima che l’indignazione accendesse la rabbia del capovillaggio nerboruto il ragazzo, sapendo bene di non avere davanti gente da comprare con la promessa di un guadagno personale, aggiunse, indicando una cisterna, una precisazione. «Abbiamo con noi merce molto rara. Una centralina che potreste barattare facilmente, ma che potreste ancor più produttivamente usare per quella cisterna laggiù. Notavo, prima, che non emette rumore. E’ rotta?» «Sì… lo è». «Se chiudessimo tutti un occhio, per avere quattro villaggi meno assetati, e la finissimo immediatamente con le domande?» «Di certo però-» «Eh no, immediatamente significa immediatamente». «Ma noi-» «Del resto se fosse, e sempre dico se fosse, una funzionaria dell’Impero, tutta questa conversazione non potrebbe avere luogo. Dopotutto». Mentre i due scendevano a valle, Aska lo tirò per un braccio: «Siamo una bella squadra eh?» «Io cercavo solo di avere la mia parte». «La tua parte?» «Io. Tu. Mani addosso. Stanotte». «Ah, lo facevi per quello». «Chiaro». Lo baciò sulla guancia: «Che bugiardo». Iniziava a imbrunire. Gli uomini di Karin andavano in giro bevendo e mangiando senza pagare. Orka si avvicinò ad uno che aveva l’aria di aver bevuto troppo per frenare la lingua. «Ti offro da bere, amico?» «Ma tanto qui si beve gratis». «Giusto. Com’è che ve la spassate così? Ho sentito che il vostro capo vuole che combattiate». L’uomo scoppiò a ridere. «Ma che dici. Non abbiamo alcun bisogno di combattere». «In che senso?» «Noi serviamo solo il capo. La proteggiamo quando dorme, ad esempio, o quando non può combattere perché… sai, le donne, ogni mese hanno…» «Sì, ho presente. Ma che vuol dire? Non combattete mai?» «Quasi mai. Basta il capo». «Non contro un esercito». «Si vede che non l’hai mai vista». «Dunque gli fate solo da guardia quando serve?» «Esatto». «E non avete mai pensato di tradirla?» «E chi sarebbe così stupido? Combattiamo poco, rischiamo quasi niente, in cambio lei divide con noi tutto ciò che ottiene con… quello che fa lei». «Con la sua forza, intendi?» L’uomo dondolò un po' la testa: «Non so se si può parlare proprio di forza, in questo caso. E’ più…» «…più?» «Sai, come ci raccontavano da bambini. Anni fa… lottatori troppo potenti per essere affrontati da uomini comuni… gente che falciava vite sui campi di battaglia, inarrestabili come dei… l’Età degli Eroi… questo genere di cose». «Come gli Shogun della Luce?» «Non saprei, ma immagino di sì». Orka rabbrividì. Un proverbio conosciuto alla Capitale Imperiale era: L’Impero ha Sette Armate, ma se le cose si mettono male, ha Tre Shogun. L’idea che per le lande camminasse a briglia sciolta qualcuno che era più o meno come uno Shogun, era di certo destabilizzante. Era, dopotutto, in buona parte anche la ragione per cui in origine Luise Seconda aveva incaricato Aska di portarle Ryu dell’Hokuto Shinken. E questa ragazza da dove usciva? Il cielo era rosso, ormai, e sulla collina dove erano parcheggiati i furgoncini si recarono i capovillaggio assieme a pochi altri, Orka, Aska. La maggior parte delle Gru Rosse era rimasta ai villaggi in fondo. Karin arrivò per ultima, barcollando. Sembrava un po' ubriaca. «Senti, coso» disse appoggiandosi a uno dei suoi uomini più giovani «tienimi il pollo, qui». Gli porse la gru tra le braccia e quello la prese con una delicatezza quasi comica. Poi lei si sfilò il vestito e lo tirò addosso a un altro dei suoi, su cui cadde coprendogli la testa. Ora aveva solo i pantaloni aderenti color avorio e una stretta canottiera alla mandarina, dello stesso colore. I capelli mogano ondeggiavano al vento, mentre lei sembrava quasi annusare l’erba. «E’ davvero stupenda» commentò Aska, non riuscendo a trattenersi. «Lo è» assentì Orka. Il corpo era bello in modo molto diverso da quello pieno e florido di Aska, e malgrado fosse flessuoso e femminile, dava l’idea di qualcosa di duro, di affilato. Era affusolato e flessibile, ma minaccioso, come la spina di una rosa. «Eccolo lì». «E’ uno di loro…» Un triclomotore discese rombando dalle montagne. Era ornato con teschi e dipinto di quelli che sembravano fluidi corporei. L’uomo a bordo era muscoloso, ma per lo più coperto da una veste di pellicce, denti e ossa cucite insieme. Karin continuò a camminare fino ad essere davanti a tutti, poi ancora. «Levati, stupida baldracca!» urlò con voce gutturale l’uomo. Karin alzò di scatto un braccio, tenendolo ritto come una lama. Qualcosa nei movimenti dell’uomo si spense. Quando il triclomotore fu a un centimetro da lei saltò in aria roteando a braccia aperte, come una croce che ruota sul suo centro, dondolando in aria come una foglia secca. «Quella è …!» disse Aska, cadendo all’indietro. «Viene verso di noi!» urlò il capovillaggio nerboruto, mettendosi davanti agli altri. «No» precisò Orka «non è vero». Orka era un osservatore attento: quando Karin aveva alzato il braccio un’onda d’urto sottile ma precisa aveva spaccato in due l’uomo, e anche il veicolo. Avvicinandosi, infatti, l’uomo e il veicolo si divisero in due, continuando ad avanzare senza vita né forza. Il volo era servito solo a schivare l’impatto con un avversario già morto. «Non… non credevo che l’avrei mai visto» mormorò Aska, sbalordita. Orka guardò ammirato il cadavere e il rottame. Era una sezione così precisa che sembrava una illustrazione presa da un libro. Il motore del triclomotore sezionato in due scoppiettò, poi si silenziò del tutto. Ora c’era solo il soffio del vento e il frusciare dei campi. «Avete dell’acqua fredda? Ho una sbornia davvero rognosa» disse Karin tenendosi la testa tra le mani. «Ma cosa avete fatto!» sbottò l’anziano capovillaggio, terrorizzato «Quello era il messaggero!» «Il…? Ah, sì. Bè, trattative finite, mi pare». «Non avete capito nulla allora! Finora non ci hanno massacrato perché non pensano che abbiamo colpito nessuno dei fratelli! Lo capite? Ora lo faranno!» «I morti non massacrano nessuno. Ora rilassati, perché mi fa male la testa». «Non potete fare tutto ciò che volete!» rincarò il capovillaggio giovane. Karin indicò la sua vittima: «Secondo me, lui pensa che posso. Dovresti dargli retta anche tu». Uno dei suoi uomini le portò dell’acqua. «Per te, capo». «Sono tutti tesi, in questa valle schifosa» borbottò lei. «Di sicuro… di sicuro qualcuno della Famiglia Kiba ci osservava con un cannocchiale…» valutò il capovillaggio gracile «avranno già visto… avranno visto…» «Certo, che hanno visto» sbuffò Karin «è proprio ciò che volevo». «Siete davvero stupida!» insistette il capovillaggio giovane «Anche se siete fortissima, anche se stanotte ne uccidete cinquanta, se anche ne sopravvivono solo due, non penseranno ad altro che a riformare la famiglia e a vendicarsi, dovessero metterci vent’anni! Non ci libereremo mai di questa maledizione, ora!» Mentre i capovillaggio inveivano contro Karin, Orka tirò su Aska per il braccio. «Che c’è?» «La Gru Rossa di Nanto è uno stile statico, basato su colpi di potenza in affondo» recitò Aska, tramortita «ma quando ha schivato in aria era…» «Non sono un esperto conoscitore della storia dell’Età degli Eroi quanto te, Aska. Ma credo che la cosa giusta da fare sia allontanarsi subito da questa tipa». «Ora dimmi una cosa» rispose Karin sciacquandosi il viso, avvicinandosi al capovillaggio giovane «Tu hai qualcuno che ami?» «Cosa…?» «Non è una domanda difficile, imbecille». «Certo… certo che ce l’ho». «Bene. Ora ipotizziamo che qualcuno prendesse quella persona che tu ami, la scuoiasse viva, la appendesse a una corda e ti dicesse che gli darà il colpo di grazia solo quando sarà assolutamente certo che fino all’ultimo dei tuoi compaesani sia morto. E sia chiaro, i tuoi compaesani creperanno tutti, tu creperai, l’unica cosa su cui hai controllo è: quanto a lungo soffrirà, quella persona che ami? E se per caso, per salvare qualcuno dei tuoi compagni, mi menti e per tua sfortuna me ne accorgo, cos’altro potrei fare a quella persona? Allora, in questo scenario… mi aiuteresti ad ammazzare tutti?» Era sceso il silenzio per la seconda volta. E stavolta nessuno l’avrebbe interrotto. «Hai capito la domanda?» «…n-no». «Infatti, non l’hai capita. Siete tutti idioti». Adesso i capo villaggio tremavano. Lei sospirò: «Ma siete idioti che mi hanno pagato per risolvere un problema. Quindi…» Indicò il ragazzo che teneva la gru in braccio. «Io faccio un’escursione. Dai da mangiare al pollo». «Certo, capo». «Torno domattina». «Sì». Fu come se tutti loro fossero soggiogati da un incantesimo. Nessuno si mosse o parlò nuovamente. La sera divenne notte, poi alba, senza che nessuno facesse praticamente niente, se non fissare il punto in cui Karin era scomparsa, scendendo verso il pendio delle montagne. All’alba, qualcosa risalì la collina. Era difficile definirlo un essere umano. Era una figura esile, interamente coperta di sangue e da brandelli di qualcosa di viscido, dalla testa ai piedi. Camminò nell’erba lasciando una striscia di sporcizia rossa e marrone. Emanava un fetore insopportabile. «Hai dato da mangiare al pollo?» chiese la creatura. «Certamente, capo». Nessuno dei capovillaggio aprì bocca. «Ci crederesti che l’Impero non riusciva a spazzare via questa marmaglia? Ma chi è che assume la gente, alla Capitale? Come cittadina imperiale» scosse la mano, da cui schizzò via un lembo di carne «mi sento presa in giro. Tu no?» «Sì, capo». Si voltò verso Aska. «Che ti guardi, bamboccia?» Aska abbassò lo sguardo senza rispondere. «Ah, ho capito. Ho per caso… qualcosa in faccia?» disse pulendo con le dita uno schizzo nero che aveva sullo zigomo. I tre suoi uomini che erano lì scoppiarono a ridere. Risero a lungo, e Aska capì che al divertimento per la battuta si aggiungeva la sensazione esilarante che si prova quando la tensione si scarica. Ma era chiaro: nessuno di loro aveva alcun dubbio che Karin sarebbe tornata. Non era la preoccupazione per Karin, a renderli nervosi e ansiosi. Era il terrore. «Voglio lavarmi».
Edited by momo.86 - 19/3/2020, 02:37
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