Alcuni pezzi dei tempi di Abu Simbel, ricomposti alla perfezione a pochi metri dal punto di origine. Abu Simbel: le cicatrici della storia di Gabriel Tibaldi Un solo inizio e una sola fine. In mezzo, né più, né meno, una vita solamente. Non si può nascere due volte, perchè il mito dell’araba fenice è appunto tale: una leggenda che rincuora chi vorrebbe vivere più volte. Ma non può. E questo vale per gli uomini e gli animali. E pure gli oggetti. Tranne uno.
Il tempio di Abu Simbel, spettacolare e avvincente, infatti, è nato non una, non due, ma ben tre volte. E quale tra queste nascite sia la più affascinante, rimane un piacevole mistero su cui spendere parole.
La prima volta che vede la luce è nel XIII secolo a.C., grazie al faraone Ramesse II, il quale, stravagante e di animo pomposo, voleva consacrare un tempio per lui e uno per sua moglie.
E li farà erigere, mastodontici, proprio là, nell’estremo Sud egiziano, in quella città di Abu Simbel, oggi meta di turismo di massa. Nonostante sia estremamente disagevole il tragitto che conduce alla città.
Il viaggio, che deve avvenire attraversando una buona fetta di deserto, dura circa due ore e mezza. Snervante, perché severe norme antiterrorismo vietano a chiunque di recarsi ad Abu Simbel in solitaria.
Bisogna formare convogli fatti di autobus, taxi e auto private, per stare tutti insieme e per essere scortati da agenti di polizia. E l’attesa di altri mezzi sufficienti a creare un convoglio che giustifichi la partenza, può durare ore.
Addirittura può capitare di sentirsi dire, magari dopo quattro ore di attesa, che oggi non si parte.
Con quella costruzione immensa, il processo di divinizzazione di Ramesse II e della moglie Nefertari poteva dirsi concluso.
Poi passeranno i secoli, verranno tempi in cui la storia prenderà direzioni diverse rispetto all’Egitto. Lunghi anni in cui di faraoni si parlerà solo sui libri. E, anche il tempio di Abu Simbel verrà abbandonato alla sabbia.
La quale, quando le si lasciano secoli di tempo, lavora di fino. E, infatti, il colossale tempio abbandonerà inesorabilmente la luce. Sommerso da tonnellate di finissima e crudele sabbia.
E abbandonare la luce, significa morire.
Fino a quando, il 22 marzo 1813, Johann Ludwig, svizzero di nascita, noterà due enormi fette di teste sbucare dalla sabbia. Ma fu soltanto il nostro connazionale, Giambattista Belzoni, che compirà il miracolo. Ridare vita a un oggetto caduto nel buio.
Scavi sistematici, guidati proprio da Belzoni, riporteranno alla luce questi templi, i quali, diverranno molto presto, i più famosi d’Egitto.
Una seconda vita fatta di turisti meravigliati, che si sostituisce a una prima composta di sudditi devoti.
Fino al giorno in cui il progresso si fa oltremodo minaccioso. Anche per loro, anche per i templi rupestri di Abu Simbel.
Nel 1960, infatti, iniziano i lavori per la, oggi famosissima, Diga Alta di Assuan. Il bisonte di cemento armato, una volta terminato, avrebbe però minacciato i templi, costruiti quando ancora il lago Nasser, artificiale, ovviamente non esisteva.
La diga, creando un gigantesco bacino d’acqua, avrebbe sommerso i templi, costruiti in una zona fattasi tremendamente pericolosa.
Quindi, con il sostanziale appoggio dell’Unesco, si decide per un intervento. Incredibile e spettacolare. Ma anche di quelli che, fatti all’ultimo minuto, danno poche speranza al paziente.
Il complesso sembrava spacciato.
Fatto a pezzi, in più di mille per la precisione, del peso di 15 tonnellate circa l’uno, il tempio smette di essere.
Iniezioni di resina, movimenti pericolosissimi di gru e speciali impasti di malta e sabbia del deserto, permetteranno di riassemblare il tutto pochi metri più in alto. Laddove le acque non facevano paura.
Il delicato e pesantissimo intervento vedrà impegnati 2000 uomini che giorno e notte lavoreranno alacremente per ridare vita ai templi sminuzzati.
Se fossimo capitati ad Abu Simbel tra il 1960 e il 1964, avremmo visto centinaia di enormi blocchi, numerati e stesi a terra come se si trattasse di un difficilissimo puzzle storico.
Bisogna ringraziare l’Unesco e quelle 2000 persone se, oggi, il complesso di Abu Simbel vive ancora. Spostato di pochi, decisivi ed estenuanti metri rispetto alla posizione originale.
Il tutto è stato riprodotto fedelmente. Alla perfezione, sono stati ristabiliti persino i millimetrici giochi di luce e stelle che agli antichi egizi tanto piacevano.
I templi hanno solo qualche piccolo e innocuo postumo dell’operazione. Osservandoli non sarà difficile notare alcune linee di demarcazione, laddove sono stati incisi e riassemblati i blocchi.
Le cicatrici della storia.
sabato 5 gennaio 2008ilreporter